L’Europa alla teologia della guerra
Il «Triangolo di Weimar» L’agenda del riarmo, correndo sul filo del si vis pacem para bellum, trova facili apologeti, sempre pronti ad irridere i cosiddetti pacifinti. Fra fra i problemi c’è come la teoria della guerra pare avere buon gioco nel raccontarsi teoria della pace
Il «Triangolo di Weimar» L’agenda del riarmo, correndo sul filo del si vis pacem para bellum, trova facili apologeti, sempre pronti ad irridere i cosiddetti pacifinti. Fra fra i problemi c’è come la teoria della guerra pare avere buon gioco nel raccontarsi teoria della pace
«Caro Antonio, noi non siamo in guerra con la Russia». Inizia così il messaggio di Emmanuel Macron, che però subito aggiunge che «è necessario non porsi limiti davanti a un nemico che non se ne pone alcuno».
L’Antonio in questione non è il ministro degli esteri Tajani – che ieri ha scandito la propria distanza da Parigi, sottolineando come per l’Italia la guerra resti fuori dall’Europa. Antonio è un ragazzino francese che, con comprensibile apprensione, si è rivolto a Macron per sapere se verranno inviati soldati in Ucraina.
Lo scambio avviene mentre a Berlino il cosiddetto Triangolo di Weimar (Macron, il cancelliere tedesco Scholz e il premier polacco Donald Tusk) ha sbloccato, inter alia, la fornitura di missili a lungo raggio agli ucraini, le cui città continuano ad essere insanguinate dai russi.
Ancora mancano dettagli, ma si tratta verosimilmente dei tedeschi Taurus, ritenuti capaci di colpire con precisione i centri di comando, penetrando bunker e fortificazioni.
L’annuncio collettivo sottintende il superamento delle polemiche fra Parigi e Berlino, che hanno visto i tedeschi risentiti per l’esiguità del contributo materiale della Francia alla difesa ucraina e per le frasi di Macron sull’invio di truppe quale antidoto alla vigliaccheria.
Una decisione comune, che mira certo a «fornire i mezzi perché la Russia non vinca», ma che parla anche di schieramenti politici in un’Europa che si prepara alle elezioni.
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Si ricompone l’asse Weimar, al centro la produzione di armi a lungo raggioDavanti allo spettro di una presidenza Trump che abbandona gli alleati, l’idea di deterrenza vacilla in Europa.
In Germania si torna a parlare di arma nucleare: non tanto di atomica tedesca, che implicherebbe il ritiro dal trattato di non-proliferazione e la contrarietà del 90% dell’opinione pubblica, quanto piuttosto di un nucleare europeizzato, a partire dalla dotazione francese e britannica.
Si è arrivati ad evocare l’eurobomba, in forma di valigetta con i codici di attivazione che incessantemente fa la spola fra le capitali europee.
L’idea di rafforzare l’ombrello atomico viene proposta a mo’ di polizza assicurativa, a prescindere dalle complessità della deterrenza nel contesto odierno. Fra queste, come ha rilevato il Bollettino degli Scienziati Atomici, il fatto che ci troviamo in una fase di riarmo generalizzato per tutto il settore difesa, e che anche le leadership di Polonia e Finlandia ormai parlano apertamente di armi nucleari.
Nei fatti le dichiarazioni di Macron e del candidato Trump stanno cambiando il paradigma strategico europeo.
Se Tajani traccia una linea di distanza, la sua omologa finlandese afferma che la cosa non può essere esclusa in futuro. Si conferma così quanto sulle colonne de il manifesto ribadiamo da tempo: una guerra che si protrae ha un alto potenziale di escalation orizzontale ed estensione.
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L’inevitabile guerra che ci aspettaPer alcuni osservatori, nelle circostanze attuali è necessario riconsiderare gli assunti di partenza e tenere ogni opzione sul tavolo.
Per sua parte, la Casa Bianca ha messo in chiaro che, pur non avendo alcun piano di boots on the ground, rispetta le decisioni sovrane degli alleati qualora decidessero di procedere in questa direzione.
L’idea di fondo sarebbe dunque ingaggiare la Russia in una vera corsa agli armamenti, fino a sbancarla, come già accadde con la Guerra Fredda.
Fra i problemi non c’è solo la questione dell’impatto devastante sul welfare in Europa, con ulteriore impulso alle destre nazionaliste.
C’è che Putin ha già dimostrato che la guerra, quella vera, non è un’opzione ipotetica: mentre tutta l’economia russa si è allineata, la retorica bellicista del Cremlino continua a crescere, al pari degli attacchi sul terreno.
E c’è che Zelenski non riesce a reclutare i numeri necessari al fronte, tanto più mantenendo credenziali democratiche. Gli sforzi atlantici allora si appuntano ora sul confine finlandese e sui Paesi baltici, dietro i quali si trova l’enclave russa di Kaliningrad.
Insomma, l’agenda del riarmo, correndo sul filo del si vis pacem para bellum, trova facili apologeti, sempre pronti ad irridere i cosiddetti pacifinti.
Dovrebbe preoccupare il fatto che il polo del dibattito che si identifica con l’idea di pace come sicurezza comune e disarmo fatica, oggi, ad articolare argomentazioni forti, distinte dal mero appeasement rispetto a un regime che non riconosce confini, attacca i dissidenti in Europa e promuove azioni di quotidiana disinformazione.
In altre parole, fra i problemi c’è come la teoria della guerra pare avere buon gioco nel raccontarsi teoria della pace.
Siamo arrivati ai liberali di casa che improvvisano lezioni taglia-e-incolla al Papa in materia di teologia della guerra: lezioni fondate sulla visione provvidenzialistica della guerra giusta (imperiale) di Agostino d’Ippona (circa 413 a.D.), con opportuna rimozione dell’antibellicismo che anima la confutazione di Celso (248 d.C.), con cui Origene di Alessandria si rivolge ai non credenti.
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Guerra e diritti, cambiare programmaLe voci a favore del disarmo, anche quelle cresciute nel contrasto della Guerra Fredda, appaiono spesso silenziose, quando non allineate nella retorica della guerra. Si pensi ai Verdi tedeschi, che presto saranno chiamati a giustificare come le risorse destinate alla transizione energetica sono finite in produzione di armi.
Perché il dibattito su guerra e pace nel futuro dell’Europa conduca a scelte ragionevoli, è necessario un dibattito reale, e che le posizioni costruiscano un solido ancoraggio argomentativo.
Non mancano certo evidenze di come lo strumento-guerra sia sempre più inservibile ai fini della risoluzione di conflitti. O di come l’avvento di ogni nuova arma, nella realtà, porterà ad adattamenti che tradiranno la retorica della vittoria.
Né mancano mobilitazioni diffuse attorno alla pace e alla necessità di aprire, con pazienza e determinazione, vie diplomatiche. Tuttavia, appena si approda alla sfera politica le argomentazioni perdono forza. O peggio si tingono di caricatura, cedendo all’idea che il debole debba soccombere al forte o imbevendosi di rossobrunismo: l’illusione prospettica secondo cui la destra sovranista porterà ‘più pace’, la proposta, nelle liste elettorali ‘per la pace’, di candidati che definiscono la tragedia della guerra un’operazione militare speciale.
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