L’Etiopia è stanca di attendere la Grand Dam: «Questione di sopravvivenza»
Intervista all'ambasciatrice etiope in Italia, Zenebu Tadesse «Oltre 60 milioni di persone non hanno ancora diritto all’energia elettrica. Le donne ai tempi di internet per procurarsi la legna sono costrette a lunghi tragitti, esponendosi a vari pericoli»
Intervista all'ambasciatrice etiope in Italia, Zenebu Tadesse «Oltre 60 milioni di persone non hanno ancora diritto all’energia elettrica. Le donne ai tempi di internet per procurarsi la legna sono costrette a lunghi tragitti, esponendosi a vari pericoli»
Niente accordo per ora tra Etiopia, Egitto e Sudan sull’entrata in funzione della Grand Ethiopian Renaissance Dam, l’immenso progetto idroelettrico che promette di produrre abbastanza energia da illuminare le abitazioni di 100 milioni di etiopi. Alcune foto satellitari mostrano che da parte etiope potrebbe essere iniziato il riempimento dell’infrastruttura, la più grande nel suo genere in Africa, nonostante i disaccordi con Egitto e Sudan. Le immagini scattate tra giugno e luglio mostrerebbero un innalzamento di 35 metri del livello delle acque nel bacino del Nilo Azzurro. Potrebbe essere dovuto semplicemente alla stagione delle piogge. Che è infatti considerata il momento ideale per l’avvio tanto atteso delle attività della diga, in Etiopia. È tornato a confermarlo il ministro etiope delle Acque, Seleshi Bekele. E il governo non lo ha mai negato.
Zenebu Tadesse, ambasciatrice etiope a Roma dal marzo 2017, prova a raccontare come il primo ministro Abiy Ahmed, premio Nobel per la Pace, stia cercando di mantenere le promesse fatte alla popolazione, tra gli ostacoli legati al mega progetto della diga e l’aumento delle tensioni etniche e politiche all’interno del Paese.
A che punto siamo con il riempimento della diga?
Inizierà entro luglio, per il Paese è una questione di sopravvivenza e sviluppo. Più di 24 milioni di persone vivono in povertà in Etiopia e più di 60 milioni non hanno diritto all’energia elettrica. Per sradicare la povertà e perché i cittadini hanno contribuito direttamente all’opera, sostenendone la costruzione, è urgente completarla. Le donne ancora oggi, ai tempi di internet, per riscaldarsi, cucinare e avere l’illuminazione in casa devono procurarsi la legna. Per trovarla sono obbligate a camminare per lunghe distanze esponendosi a numerosi pericoli, tra cui violenze e abusi.
Permane lo stallo nelle trattative con Egitto e Sudan, qual è la questione che impedisce una convergenza di opinioni?
Si attende di vedere cosa succederà nei prossimi giorni, dopo che la Commissione dell’Unione africana lunedì ha concluso i lavori senza un’intesa. Attendiamo il report dei rappresentanti dei tre paesi che hanno discusso la questione, dandosi il limite di due settimane di tempo. Le trattative con Egitto e Sudan sugli aspetti tecnici, legali e politici dell’infrastruttura sono iniziate nell’aprile 2011. L’Egitto a più riprese ha proposto di coinvolgere alcuni facilitatori internazionali e di recente ha chiesto la mediazione dell’Onu. C’è un continuo prendere tempo da parte del Cairo, forse per rimandare il più possibile l’entrata in funzione della diga. Egitto e Sudan inoltre sostengono ancora la validità del documento siglato nel 1959 in cui si spartivano le acque del Nilo tra loro: 55 milioni di metri cubi all’Egitto, 18,5 al Sudan. Gli altri paesi non avevano voce. Ma non si può non tener conto che il Nilo Azzurro nasce in Etiopia, dove scorrono il 60% delle sue acque.
I tempi di riempimento restano un tema divisivo?
Avevamo stabilito un periodo di 3-7 anni, poi l’Etiopia ha accettato di rallentare il processo per venire incontro a Egitto e Sudan che temono si crei una situazione di siccità sui propri territori. L’Etiopia non intende danneggiare i due paesi amici e tiene moltissimo al dialogo. Ma la decisione di riempire la diga non può essere considerata unilaterale: sono 9 anni che discutiamo per raggiungere un punto d’incontro.
Nelle ultime settimane il Paese è stato scosso dalle proteste esplose dopo l’uccisione del cantante Hachalu Hundessa. Cosa sta succedendo?
Il governo non considera la morte di Hundessa un omicidio ordinario, ma un tentativo ben organizzato di destabilizzare il paese messo in atto da che ha interesse politico a creare tensioni etniche. Per ora sono state arrestate tre persone dell’Oromo Liberation Front che hanno confessato di essere gli esecutori materiali dell’assassinio, ma le indagini continuano. Il gruppo etno-nazionalista collegato a Jawar Mohammed e all’Oromo Media Network di quest’ultimo, ha cercato di dirottare le spoglie del cantante per seppellirle a Addis Abeba. Mohammed è stato arrestato in quell’occasione con l’accusa di aver ucciso un agente.
Negli scontri avvenuti in quelle ore sono morte almeno 167 persone. Come è potuto accadere?
In tutto il Paese ci sono state inizialmente dimostrazioni pacifiche in onore del cantante. In seguito però alcuni gruppi violenti hanno iniziato ad accusare l’etnia amhara di essere dietro l’omicidio. L’incitamento all’odio è partito dai social e dal canale tv di Jawar Mohammed, che poi è stato chiuso. Le vittime delle aggressioni avvenute nella regione Oromia sono principalmente amhara aggrediti dai gruppi etno-nazionalisti oromo. Durante le proteste vari edifici istituzionali sono stati dati alle fiamme e le forze di polizia hanno subìto attacchi armati. Ora, sia il cantante Hundessa che i sospettati dell’omicidio sono di etnia oromo. Lo sono anche l’oppositore Jawar Mohammed e il primo ministro Abiy Ahmed. L’etnia oromo è maggioritaria nel paese, non si può dire che ora sia marginalizzata, mentre è corretto parlare di una spaccatura al suo interno. In Etiopia abbiamo almeno 86 etnie e quando è salito al potere Abiy Ahmed ha cercato di dare voce a tutte le minoranze.
Per oltre due settimane c’è stato il blocco totale di internet. Perché una misura così, che altrove sarebbe considerata eccessiva per una democrazia?
Internet, i social network, e le fake news erano il metodo principale utilizzato da gruppi politici interni ed esterni al paese per diffondere informazioni sbagliate e dividere i cittadini. Attuando questa misura di sicurezza il governo non ha nessuna intenzione di ridurre la libertà di parola e di espressione, ma limitarsi a proteggere i cittadini dalle notizie false e dall’hate speech fuori controllo, per evitare il ripetersi di ciò che è successo nell’ottobre 2019, quando Jawar Mohammed nei suoi post diceva che era accerchiato dalla polizia e i suoi sostenitori per reazione hanno ucciso 86 persone di etnie diverse. È accaduta una cosa simile dopo la morte di Hundessa: la notizia falsa della colpevolezza degli amhara è stata diffusa consapevolmente. Inoltre Facebook è lo strumento privilegiato di alcuni politici emigrati, che dagli Usa diffondono odio e notizie distorte con l’obiettivo di incitare la popolazione contro il governo. La stessa cosa sta avvenendo sul piano religioso. Nell’ultimo anno in Etiopia sono state bruciate delle chiese e i gruppi delle diverse confessioni si accusano a vicenda. Anche nel genocidio del Ruanda i media sono stati utilizzati per seminare l’odio tra le diverse etnie. Sono tutti tentativi architettati per creare il caos nel paese e prendere il potere.
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