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«L’era dei combustibili fossili è alla fine»

«L’era dei combustibili fossili è alla fine»

Intervista Michael E.Mann, climatologo americano e direttore dell’Earth System Science Center dell’università della Pennsylvania

Pubblicato più di 6 anni faEdizione del 14 giugno 2018

Insulti, minacce di morte, allusioni alla sicurezza della famiglia, perfino una lettera contenente polvere bianca, che fortunatamente si rivelò essere solo amido di mais: dall’inizio della sua carriera scientifica, il climatologo e geofisico statunitense Michael Evan Mann ha subìto attacchi di ogni tipo. Oggi è docente di Meteorologia e direttore dell’Earth Systems Science Center all’Università della Pennsylvania; la sua notorietà inizia nel 1998 con i primi studi, sui quali si basa il grafico dell’hockey stick, che mostra come nel millennio tra il 1000 e il 2000 le temperature crescano negli ultimi 150 anni, in corrispondenza con la rivoluzione industriale. La brusca impennata disegna appunto una mazza da hockey; una prova schiacciante di come le attività umane abbiano un ruolo determinante nel surriscaldamento globale. Da 20 anni i negazionisti attaccano Mann e chi sostiene le sue stesse tesi; arrivando a coinvolgerlo in quello scandalo pretestuoso che fu il climategate, scoppiato nel 2009. Le accuse rivolte a Mann e ai suoi colleghi si dimostrarono false o infondate, ma il danno ormai era fatto: diedero forza ai negazionisti, condizionando l’esito della COP15 di Copenhagen (2009), rimandando di ben 6 preziosissimi anni (alla COP21 di Parigi) il raggiungimento di un accordo comune per limitare le emissioni di gas serra.

Nemmeno questo episodio fermò Mann, sempre più convinto dell’importanza della divulgazione scientifica per sensibilizzare l’opinione pubblica. Da questa convinzione nasce il suo ultimo libro The Madhouse Effect (in Italia La Terra brucia, Hoepli 2016) con le vignette del premio Pulitzer Tom Toles.

Un volume necessario, che ha anticipato di pochi mesi l’arrivo alla Casa Bianca del negazionismo climatico di Donald Trump, posizione confermata anche all’ultimo G7 in Canada.

Ma negli Stati Uniti questa fase non è destinata a durare, e a dirlo è lo stesso Mann: «Nonostante la posizione e l’intransigenza dell’amministrazione Trump, fortunatamente altri paesi si stanno dimostrando fermi nel sostenere politiche per contrastare i cambiamenti climatici. Per esempio la Cina, e la stessa Unione Europea. Purtroppo, per il momento, gli Stati Uniti stanno rimanendo indietro, e ne subiranno le conseguenze in termini di competitività economica e autorità morale. Questa è però solo una fase temporanea: gli Usa presto sapranno superare l’oscurantismo dell’era di Trump, per riallinearsi con il resto del mondo e affrontare questo problema.

Nel frattempo, tuttavia, questa particolare situazione sta offrendo l’opportunità ad altre nazioni, proprio come la Cina, di assumere un ruolo di leadership».

Anche negli Stati Uniti infatti, nonostante il negazionismo possa contare su una imponente cassa di risonanza mediatica, è chiaro che i cambiamenti climatici sono una realtà.

«Ormai tra le persone questa è una convinzione radicata e diffusa», spiega Michael E.Mann, «anche negli Stati Uniti, come in Europa, l’impatto dei cambiamenti climatici è sempre più evidente. Vediamo gli effetti coi nostri occhi: tutti sanno che sta succedendo qualcosa. Siamo sempre più vicini ad un punto di svolta: a livello globale c’è un ripensamento sul nostro modo di produrre energia e sull’utilizzo che ne facciamo. L’era dei combustibili fossili sta per finire, e la gente lo sa. Sempre più spesso scegliamo energia alternativa e veicoli elettrici; c’è un’evidente e generalizzata transizione verso un’economia globale basata sulle energie rinnovabili».

Per riuscire a rispettare il limite dell’aumento di 2°C previsto negli accordi di Parigi, questa tendenza generalizzata chiaramente non basta. Alcuni recenti studi affermano che l’obiettivo è ormai già irraggiungibile. Su indicazione della COP21, in settembre l’IPCC (International Panel on Climate Change) presenterà lo speciale rapporto sugli effetti dell’aumento di 1.5°C, traguardo a cui siamo vicinissimi.

«Abbiamo pubblicato recentemente degli studi proprio su questi temi (Importance of the pre-Industrial baseline for likelihood of exceeding Paris goals, Nature Climate Change, 7, 2017 e Interpretations of Paris Climate Target, Nature Geoscience, 2018). Questi studi dimostrano che è ancora possibile contenere il riscaldamento sotto i 2°C rispetto alle temperature del periodo pre-industriale, ma questo richiede un importante sforzo concertato a livello internazionale. La riduzione delle emissioni di carbonio dovrebbe essere ulteriormente ridotta, rispetto al taglio del 40% attualmente previsto. Per limitare il riscaldamento al di sotto di 1.5 °C sarebbero necessari sforzi ulteriori, ad esempio la rimozione attiva di CO2 dall’atmosfera, un processo che viene definito ad emissioni negative (che consiste nel recuperare dall’atmosfera più CO2 di quanta se ne immetta, ndr)». Per Mann, l’unica vera ricetta quindi per affrontare i cambiamenti climatici resta quella di ridurre drasticamente le emissioni di gas serra: «La parte del leone delle nostre emissioni di carbonio deriva dall’uso di combustibili fossili per l’energia e i trasporti. Questo è ciò su cui dobbiamo concentrarci davvero».

Fermare la deforestazione, arginare l’avanzata dei deserti, rendere sostenibili le nostre città, trovare un modo per salvare le barriere coralline e le altre specie a rischio estinzione: niente di tutto questo basterà se non smetteremo di usare carbone e petrolio.

Michael E. Mann è arrivato in Italia, sabato 16 giugno interverrà alla festa annuale di Radio Popolare a Milano; tra le città e gli atenei che si sono litigati la sua presenza l’hanno spuntata il Politecnico di Milano (18 giugno mattina), Trento (Muse, 18 giugno sera), Venezia (Ca’ Foscari, il 20), Moncalieri (il 22, con Luca Mercalli). Mann parlerà del negazionismo e di come combatterlo; entrerà nel dettaglio delle sfide che ci aspettano, e che ci riguardano da vicino anche come cittadini, perché, come afferma nelle conclusioni del suo libro: «Il tempo di augurarsi un’azione politica sul clima è ormai superato. È arrivato il tempo di esigerla».

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