Visioni

«L’Envol», trascinati in alto da una sensuale libertà

«L’Envol», trascinati in alto da una sensuale libertàJuliette Jouan ne «L’Envol»

Cannes 75 Il primo film prodotto in Francia da Pietro Marcello ha aperto la Quinzaine des réalisateurs, tratto da un romanzo del 1923 di Aleksandr Grin

Pubblicato più di 2 anni faEdizione del 20 maggio 2022

È un Pietro Marcello libero da automatismi stilistici e necessità dimostrative quello che porta alla Quinzaine di Cannes il suo film più bello. Realizzato in Francia, parlato in francese e prodotto all’interno di un sistema cinematografico organizzato in modo diverso dal nostro, L’envol è un film di sconcertante libertà e grandissima forza espressiva, dove la narrazione sembra coincidere con il destino dei suoi personaggi e l’esattezza della forma giunge come un premio non richiesto e per questo più straordinario.
Tratto liberamente da un romanzo del 1923 di Aleksandr Grin, uno scrittore molto popolare in Unione sovietica negli anni venti (uscito in Italia soltanto 40 anni più tardi per gli Editori riuniti), il film racconta la storia di un padre e di una figlia, del loro amore e della comunità nuova che un gruppetto di donne e uomini costruisce al di fuori del villaggio, della sua morale, della sua economia.

DOPO UN’INTRODUZIONE con materiali d’archivio che un po’ didascalicamente colloca la vicenda nel primo dopoguerra, il volto straordinario di Raphaël Thiéry si impone quasi con violenza allo sguardo dello spettatore. Roccioso e aspro, viene filmato da Pietro Marcello come se fosse un paesaggio sconosciuto, un luogo da esplorare con cura per poterne intendere il carattere.
A lui toccano subito il dolore della perdita – la sua amata è morta quando lui era lontano – e il peso della responsabilità di una bambina che non sapeva di avere. Saranno le sue mani, enormi e sgraziate ma capaci di grandi raffinatezze nell’incisione del legno, a dargli la dignità del lavoro ben fatto e a fargli conoscere la responsabilità della forma, quando l’ordine di realizzare una polena si trasfigura nell’omaggio alla bellezza del suo amore perduto.

Si impone lo straordinario volto di Raphaël Thiéry, mentre l’esordiente Juliette Jouan non abbassa mai lo sguardo

AL POLO OPPOSTO c’è una bambina che prima vagisce e poi cresce, che misura il suo talento artistico sui tasti di un vecchio pianoforte e che sa guardare dritto in faccia alla realtà. Juliette (l’esordiente Juliette Jouan) non abbassa mai lo sguardo, sa volere bene e sa difendersi e in ogni cosa è sempre lei a prendere l’iniziativa, si tratti di controllare il proprio destino o di imprimere una svolta al film. La macchina da presa la ritrae con orgoglio paterno, ma nel momento in cui compare un bell’avventuriero dell’aria (Louis Garrel) sa cogliere la magia erotica dell’incontro e la dolcezza di dopo l’amore: non c’è bellezza senza libertà e non c’è erotismo senza indipendenza.
E lo stesso accade per la messa in scena di Marcello, libera e sensuale come mai prima, capace di trovare le immagini giuste senza doverle cercare, svincolato definitivamente dalla necessità di motivare le scelte o di esplicitare i passaggi teorici. Il film corre ed emoziona, ricorda senza pedanterie il Renoir proletario di Toni e la pittura di Corot, ma concede connessioni al femminismo involontario di Howard Hawks e a tutto il fuori campo che si vuole immaginare. Il finale è dedicato alla Hirondelle dell’anarchica Louise Michel: una scelta perfetta per accompagnare lo spettatore verso la sua libertà.

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