È festa grande a Panama. Al grido di “Sí se pudo”, attivisti sociali, giovani, indigeni, ambientalisti, leader sindacali e tantissimi altri cittadini sono scesi in strada, in tutto il paese, per celebrare la sentenza con cui la Corte suprema, all’unanimità, ha dichiarato incostituzionale il contratto firmato dal governo di Laurentino Cortizo con l’impresa Minera Panamá, filiale della canadese First Quantum Minerals. E, oltretutto, simbolicamente, proprio nel giorno della festa dell’indipendenza, il 28 novembre.

Una vittoria piena, di quelle a cui, in qualunque parte del mondo, non capita spesso di assistere. Ci sono voluti, per ottenerla, 40 giorni di proteste senza precedenti, 1.274 arresti, 155 dei quali di minorenni, e quattro morti, di cui due uccisi da un uomo, che, di fronte a una barricata che bloccava il traffico lungo l’autostrada Panamericana, era sceso dalla sua auto e aveva aperto il fuoco.

ALLA FINE, PERÒ, il popolo panamense ha praticamente ottenuto tutto quello che chiedeva: il divieto a tempo indeterminato di ogni concessione per attività legate allo sfruttamento, all’estrazione e al trasporto di minerali metallici in tutto il territorio nazionale e, soprattutto, la bocciatura della legge 406 che autorizzava la Minera Panamá a sfruttare per altri vent’anni, prorogabili per ulteriori venti, la più grande miniera di rame a cielo aperto dell’America Centrale, dal valore, secondo i dati ufficiali, pari al 4% del Pil. Un giacimento situato in un territorio di 12mila ettari all’interno della provincia caraibica di Colón, a circa 240 chilometri dalla capitale, appartenente al Corridoio biologico mesoamericano, una delle aree più ricche di biodiversità del pianeta.

LA LEGGE era stata approvata in tempi record il 20 ottobre, dopo solo tre sessioni legislative e per di più a porte chiuse, in violazione di quel Trattato di Escazú, firmato da Panama nel 2020, che garantisce tra l’altro il diritto di accesso alle informazioni ambientali e la partecipazione pubblica alle decisioni riguardanti progetti e attività con un possibile impatto sull’ambiente e sulla salute. E, come se non bastasse, si era basata, secondo la denuncia del giurista Giovanni Olmos, ex procuratore per i reati ambientali, su studi di impatto ambientale «obsoleti», in quanto risalenti al 2011.

«Per questo oggi non sappiamo cosa sta succedendo all’interno della miniera, come vengano trattate le acque reflue, in che condizioni si trovino i fiumi e i boschi», aveva dichiarato Olmos, già noto per aver bloccato nel 2005 la costruzione di una strada all’interno del parco nazionale Volcán Barú, scontentando la allora presidente Mireya Moscoso.
In maniera altrettanto immediata, la legge era poi stata promulgata da Cortizo, il quale aveva fatto di tutto per difenderla, offrendo persino, come moneta di scambio per l’approvazione del contratto minerario, il miglioramento delle pensioni, la sostenibilità del Fondo di previdenza sociale e gli investimenti nell’istruzione. Nessuna lusinga, incluso il tentativo di indire un referendum (peraltro subito vanificato dal Tribunale elettorale) era riuscita comunque a fermare proteste e blocchi stradali, il cui impatto sull’approvvigionamento dei beni di prima necessità, sul prezzo della benzina e sul turismo era diventato via via più grave.

Infine, però, il governo ha dovuto capitolare: «Tutti dobbiamo rispettare e osservare le decisioni della Corte Suprema, che sono conclusive, definitive e obbligatorie», ha dichiarato Cortizo, in un messaggio alla nazione, garantendo la chiusura «ordinata e sicura» della miniera Cobre Panamá.

NON SI RASSEGNA invece la First Quantum Minerals, la quale deve le sue fortune soprattutto al rame, che nel 2016 rappresentava l’80% dei suoi ricavi (oltre che al nichel, all’oro e all’argento): secondo il ministero del commercio panamense, l’impresa mineraria canadese, che dall’inizio delle proteste ha già perso più del 50% della sua quota di mercato, intende infatti avviare un procedimento arbitrale con il paese centroamericano. E per Panama si tratta di un rischio enorme: se sconfitto, il paese potrebbe infatti essere obbligato a versare all’azienda una cifra stratosferica, fino a 50 miliardi di dollari.