Internazionale

Le tende e l’elmetto negli Stati disuniti

Le tende e l’elmetto negli Stati disunitiUniversitari per il cessate il fuoco nell’accampamento di tende nel campus della Columbia, New York foto Ap/Yuki Iwamura

Tremenda vendetta La questione palestinese spacca la società americana, come mai prima

Pubblicato circa 2 ore faEdizione del 5 ottobre 2024
Luca CeladaLOS ANGELES

C’è voluto un anno, da quel fatidico 7 ottobre, per ottenere infine la guerra totale così fervidamente cercata. Un anno che la Casa bianca ha scandito con vuoti appelli ed esortazioni alla moderazione che, puntualmente e impudentemente smentite sul campo da Netanyahu, hanno sopra a tutto rivelato l’anziano presidente e la sua superpotenza per le tigri di carta che sono.

Sono stati anche 12 mesi che sulla questione palestinese hanno visto lacerata la società civile americana come mai prima. Storia cultura e politica fanno inevitabilmente degli Stati uniti la retrovia delle guerre israeliane. Stavolta il conflitto ha aperto un «fronte interno» come non accadeva dalla guerra del Vietnam. E per la prima volta è parsa infrangersi l’unanimità dell’assiomatico sostegno per Israele.

LE POLEMICHE che seguono da subito il mortifero attentato di Hamas, preannunciano la portata delle riverberazioni nella società americana. Ad Hollywood, una settimana dopo l’attacco, 300 sceneggiatori firmano una lettera che critica il sindacato degli autori (Wga) per non aver emesso un comunicato di condanna di Hamas, pur avendo in passato espresso solidarietà con Black Lives Matter e #MeToo.

Quasi un anno dopo, a settembre, 700 attori chiedono a loro volta al sindacato (Sag) di proteggere gli iscritti dalla discriminazione cui sono soggetti nell’industria coloro che esprimono solidarietà con la Palestina. In mezzo altre missive, quella della Creative Community for Peace, ad esempio, che chiedeva che la regista palestinese Bisan Owda venisse esclusa dai premi Emmy (il suo video-diario It’s Bisan from Gaza and I’m Still Alive finirà invece per vincere). La spaccatura nella principale industria culturale è sintomatica del paese, il dibattito si intreccia su antisemitismo, colonialismo, etica e morale.

Già a dicembre, stando a un sondaggio Gallup, il 63% dei democratici si dichiara contrario all’operato di Israele a Gaza. Per gli interpellati sotto i 35 anni di età, la percentuale sale al 67% – numeri enormi per gli Stati uniti, dove il sostegno all’alleato “speciale” in Medio Oriente è storicamente dato per scontato. A marzo si registrano eventi finora impensabili: il senatore Chuck Schumer decano democratico (ebreo) in Senato, critica apertamente Netanyahu, denunciandone le politiche che rischiano di «isolare Israele nel mondo». E gli Stati uniti si astengono, per la prima volta dagli anni ’70, permettendo l’adozione di una risoluzione di condanna al Consiglio di Sicurezza dell’Onu. AL

DIPARTIMENTO di Stato 500 dipendenti firmano una lettera di protesta. Un mese dopo lo faranno anche più di cento dipendenti del ministero per la Homeland Security, contestando il «silenzio inaccettabile» del ministero sulla strage in atto. Fra novembre e giugno si dimetteranno per protesta almeno sette diplomatici. A febbraio un ufficiale dell’aeronautica, Aaron Bushnell, morirà immolato davanti all’ambasciata israeliana della capitale. «Se gli Stati uniti vogliono essere una forza di stabilità e pace – sostiene Hala Rharrit, portavoce dimissionaria del ministero degli esteri – serve diplomazia, non armi». Non occorre però attendere che Israele bandisca il segretario generale dell’Onu, per capire che proprio la diplomazia è vittima designata del piano Netanyahu per la guerra totale.

IL DATO NUOVO è un vasto e articolato movimento di dissenso contro la strage infinita. Un antagonismo articolato da voci come Bernie Sanders e Naomi Klein o da intellettuali come Ta-Nehisi Coates che nel suo appena pubblicato The Message rivendica il diritto e il dovere di denunciare l’obbrobrio morale di ingiustizie che perpetuano soprusi antichi, che riverberano soprattutto per popoli storicamente oppressi. È su questo, e contro il flusso ininterrotto di armi americane che per tutto l’anno ha alimentato i bombardamenti su Gaza, che si sviluppa l’opposizione contro la quale si organizza subito la repressione.

Il movimento studentesco, articolato in un arcipelago di accampamenti pacifici e tech-in, viene criminalizzato e represso con la forza. Alle cariche della polizia si somma la violenza di provocatori filoisraeliani. Alla Ucla di Los Angeles, sotto gli occhi della polizia, prende la forma di un assalto all’arma bianca che dura una notte intera a cui partecipano reduci dell’esercito israeliano, che portano agli alberati campus universitari le tattiche di intimidazione dell’occupazione cisgiordana – godendo della stessa impunità.

PIÙ INSIDIOSO, se possibile, è il vento freddo del neomaccartismo che prende a spirare dal Congresso alle università e nella cultura. La pressione politica per imbavagliare il dissenso è enorme. Davanti alla Commissione di inchiesta sull’antisemitismo costituita dal Congresso vengono trascinati rettori universitari accusati di permissività eccessiva nei confronti dei manifestanti. Dopo l’interrogatorio pubblico, le rettrici di Harvard e U Penn perderanno il posto.

NEL PAESE dove il primo emendamento protegge perfino le manifestazioni di nazisti con tanto di svastiche e uniformi, politici e commentatori chiedono ora la tolleranza zero e si stilano liste di proscrizione. Maha Dakhil, agente di punta della potente Creative Artists Agency di Hollywood (Caa), rischia la carriera per avere usato il termine «genocidio» in un post social. Sarà costretta a orwelliana e pubblica abiura. «Con quel post ho sbagliato – dichiara a Variety – Sono grata a tutti gli amici e colleghi ebrei che mi hanno educato sulle implicazioni».

Prima dell’estate, l’università di New York (Nyu) inserirà «sionismo» e «sionista» in un elenco di espressioni considerate ingiuriose e discriminatorie. È il teorema dell’equivalenza tra critica di Israele e antisemitismo. Per rafforzarlo, la Anti Defamation League allarga a termini come «intifada» o dal «fiume al mare» la propria definizione di odio antisemita. In primavera, l’Aipac (American Israel Public Affairs Committee), la potente lobby israeliana, annuncia ufficialmente una campagna contro esponenti progressisti in Congresso come Alexandria Ocasio Cortez o Rashida Tlaib, fautrice della protesta solitaria contro il discorso di Netanyahu il mese scorso.

Finanzierà con 100 milioni di dollari avversari dei parlamentari dello Squad che si sono espressi contro la guerra. A giugno Jamaal Bowman è la prima vittima a New York, due mesi dopo toccherà a Cori Bush in Missouri. Contro Aipac si esprime la coalizione ebraica antisionista che da subito ha avuto un ruolo primario nel movimento pacifista. Formazioni come If Not Now e Jewish Voice for Peace rifiutano la strumentalizzazione politica della «causa ebraica» da parte di un governo in mano a fanatici fautori dell’etnostato ebraico. A proposito dell’introspezione che lo sterminio di Gaza provoca all’interno della comunità, così influente sulla politica e la cultura americana, a marzo Peter Beinart parlerà sul New York Times della «great rupture in Jewish American life», la dissociazione nella diaspora, come il dissenso residuo in Israele, mette in luce il suicidio morale commesso dal governo di estremisti suprematisti.

EPPURE in questi giorni, l’anno di dibattito e introspezione sembra travolto e ammutolito nella logica totalizzante delle armi di fronte alla quale sono sempre più fievoli e rari i moniti. Con il lancio degli interceptor dagli incrociatori della US Navy contro l’attacco dell’Iran, sembra scattato l’antico riflesso dell’allineamento totale con l’alleato. Alla paludata NPR Chuck Freilich, consigliere israeliano e professore di Columbia e Harvard (dove nuovi regolamenti quest’anno vietano come in molti atenei Usa le manifestazioni studentesche), spiegava senza contraddittorio che «Netanyahu ha svoltato l’angolo, l’asse del male è in rotta e ora si può decapitare il serpente (iraniano)». L’eccitazione per la soluzione finale è debordata sulla pagina editoriale del New York Times che l’indomani dell’attacco iraniano ospitava un corsivo titolato «L’escalation con l’Iran è assolutamente necessaria».

E nel dibattito dei vicepresidenti il candidato democratico affermava: «L’espansione di Israele e dei suoi rappresentanti è una necessità assolutamente fondamentale per gli Stati uniti». Questo dal partito meno legato a Netanyahu, che è invece di casa nella Mar A Lago di Trump. Quest’ultimo, a proposito della incipiente guerra mondiale contro cui ama porsi come unico baluardo, dirà: «A volte bisogna lasciare che risolvano da soli, come scolari si picchiano al parco giochi».

IN QUESTO INFAUSTO anniversario, nessuno dubita che ogni mossa tattica di Israele verrà ora coordinata con l’alleato-sponsor, partner, infine, nella guerra totale così intenzionalmente ricercata. In questo momento drammatico in cui tutti sembrano sottoscrivere il tracollo di ogni residuo diritto internazionale e delle norme istituite dopo le guerre mondiali per non ripeterne più la catastrofe, in questo quadro tetro, risalta ancor più dolorosamente l’abdicazione degli Stati uniti di ogni ruolo di leadership propositiva che, pure, i suoi cittadini sembrerebbero chiedere come non mai.

I consigli di mema

Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento