Sopravvivenza bellica. Una teologia politica
Tremenda vendetta Guerra «giusta» e «umanitaria» nel nome dei superstiti: Gaza l’ultima tappa
Tremenda vendetta Guerra «giusta» e «umanitaria» nel nome dei superstiti: Gaza l’ultima tappa
A un anno di distanza dal fatidico 7 ottobre, i tratti del genocidio israeliano a Gaza appaiono evidenti, al di là dei morti in continuo aumento, della demolizione degli ospedali, della mancanza di medicine e di cibo. I palestinesi di Gaza sono diventati una massa di sfollati, sottoposti a bombardamenti e ripetute evacuazioni dentro un territorio completamente distrutto e diventato inabitabile, al punto che perfino i cimiteri, sono bombardati e spianati dai bulldozer.
GAZA È UN CUMULO di macerie e i suoi abitanti, in base alla strategia militare del governo israeliano, sono ormai, per usare le parole di Hannah Arendt ne Le origini del totalitarismo, una massa di individui «superflui» ai quali si sta negando il «diritto di vivere». Se anche un improbabile miracolo – un intervento degli Stati uniti – potesse fermare il massacro, i palestinesi della striscia di Gaza sarebbero già diventati una folla di «superstiti» in un paesaggio lunare di città distrutte, di crateri e di desolazione. A Gaza, restare in vita è una lotta permanente. Nella lingua araba, il termine sumud definisce appunto la sopravvivenza come resistenza. Per lo scrittore Raja Shahadeh, sumud indica «gli atti quotidiani di resistenza necessari per sopravvivere nei tempi più duri», un’idea che il poeta Mahmud Darwish esprime nei suoi versi: «Scrivo il mio silenzio… invoco il sumud».
La figura del superstite è indissociabile dalla storia dei genocidi. Le sue modalità di sopravvivenza, le sue strategie, le sue interferenze con il mondo circostante, ostile o benevolo, complice della violenza subita o rifugio salvifico, ne modellano il profilo. Gli indiani del Nord America non hanno mai smesso di testimoniare la loro tragedia. Interrompere la catena dei genocidi, ha scritto Lawrence W. Gross, specialista di Native American Studies in California, è il solo modo di rendere giustizia a un popolo cancellato dalla storia. Questo punto di vista era anche quello di Primo Levi, che ne I sommersi e i salvati (1986) indossava i panni del superstite con estrema modestia, mettendo in guardia contro i malintesi legati all’interpretazione di questa figura sui generis.
CON ESTREMA severità verso sé stesso e verso i compagni di sventura tornati dalla deportazione nei campi nazisti, egli si definiva come rappresentante di «una minoranza anomala oltre che esigua: siamo quelli che, per loro prevaricazione o abilità o fortuna, non hanno toccato il fondo. Chi lo ha fatto, chi ha visto la Gorgone, non è tornato per raccontare, o è tornato muto». I «sommersi», aggiungeva, «sono la regola, noi l’eccezione». L’avvertimento di Levi è stato ignorato. Nei decenni seguiti alla sua morte, la memoria dell’Olocausto è stata sacralizzata ed eretta a monumento. I superstiti dello sterminio nazista, spesso contro la loro volontà, sono stati trasformati in «santi laici», secondo le parole dello storico Peter Novick, invocati per fissare le norme morali della nostra società.
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Le parole nella giungla del nuovo ordineIl superstite parla in nome delle vittime e le vittime sono invocate per legittimare le politiche dei governi, anche le più disumane, avvolgendole in un manto «umanitario». Secondo Adam Y. Stern, studioso dell’università di Madison, Wisconsin, il concetto occidentale di «sopravvivenza», assai diverso da quello arabo o indiano-americano, possiede alcune premesse teologiche che meritano di essere ricordate (Survival: A Theological-Political Genealogy, Yale University Press, 2021).
Se il termine ha conosciuto una notevole proliferazione in molti campi, dagli studi sulla guerra a quelli sull’ambiente (si parla comunemente di sopravvivenza alle carestie, ai cambiamenti climatici, alle pulizie etniche, alla violenza sessuale, ecc.), il suo significato moderno è stato profondamente rimodellato dai traumi contemporanei, primo fra tutti l’Olocausto, e il sopravvissuto dei campi nazisti è diventato la sua personificazione per eccellenza.
IL SUPERSTITE EBREO è così dipinto allo stesso tempo come vittima e redentore, testimone di una indicibile sofferenza e messaggero di una prescrizione morale: «Mai più». Secondo Stern, questo sopravvissuto ebreo coincide con un’immagine archetipica della teologia cristiana: il martirio e la resurrezione del corpo di Cristo, un corpo mistico che l’eucaristia rende «riproducibile» e la chiesa difende e propaga come ordine immortale. Attraverso il miracolo eucaristico della transustanziazione, il corpo di Cristo si trasmette ai fedeli, facendo emergere simultaneamente, come sottolineava Ernst Kantorowicz nel suo classico I due corpi del re (1957), «il corpus mysticum spirituale e il sacrum imperium secolare».
La nostra modernità politica occidentale porta in sé questa genealogia teologica nascosta, una genealogia che prende una forma compiuta nel discorso sionista della redenzione ebraica attraverso Israele, lo Stato che ha dato una nuova sovranità alle vittime dell’Olocausto, riscattandone i morti e sacralizzando il potere temporale dei superstiti. Questa teologia politica è il nocciolo segreto di uno Stato la cui esistenza e i cui atti sono compiutamente profani. In Israele, prosegue Stern, il discorso sulla «sopravvivenza» (hisardut) viene sempre più spesso collegato alla tecnologia bellica, soprattutto grazie alla fabbricazione di carri armati (merkavot) che garantiscono «un alto grado di sopravvivenza» ai soldati che li manovrano. In altri termini, quest’arma moderna ha tradotto un concetto teologico in politica coloniale: l’occupazione dei territori palestinesi.
A conclusione di questa metamorfosi, il sopravvissuto ebreo è diventato il soldato di Tsahal, il cui «survivalismo» si declina come colonialismo. Questo è il percorso che ha permesso a Israele di unirsi al mondo cristiano e diventare parte integrante dell’Occidente (il suo prolungamento in Medio oriente). In breve, la storia ebraica è stata incorporata nell’idea di una civiltà occidentale «giudeo-cristiana» e nel colonialismo, che ne è il corollario. Si tratta di un processo paradossale: una teologia politica cristiana storicamente antisemita ha dunque incorporato, nelle sue forme secolarizzate, una tradizione ebraica riveduta e corretta, un messianismo laico messo in atto con blindati, aerei, droni e scudi antimissili prodotti soprattutto negli Stati uniti, in misura minore in Gran Bretagna, Germania, Francia e Italia.
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Israele e Palestina, un anno di una guerraIl fenomeno non è nuovo, la guerra di Gaza ne è soltanto l’ultima tappa. Se ne parlava già una ventina d’anni fa, al momento della guerra del Golfo, messa in atto da George W. Bush nella cui amministrazione erano numerosi gli allievi di Leo Strauss, da Paul Wolfowitz ad Abram Shulsky, da Elliot Abrams a Richard Perle (con Robert Kagan come consigliere esterno). Atene e Gerusalemme, la ragione e la rivelazione, la polis e la bibbia, la democrazia e il monoteismo, ossia le radici dell’Occidente secondo Leo Strauss, il filosofo ebreo tedesco emigrato a Chicago, sono diventate, nella traduzione geopolitica dei suoi discepoli, Washington e Tel Aviv, il Pentagono e l’Idf, la democrazia imperiale americana e Israele, la «sola democrazia del Medio oriente».
COSÌ SECOLARIZZATA, la teologia politica occidentale coinvolge anche la memoria dell’Olocausto piegandola alle sue esigenze e facendone una potentissima cauzione della violenza israeliana. Questo è il retroterra filosofico-politico (o teologico-politico) delle dichiarazioni dei nostri capi di stato e della narrativa dei nostri grandi media di fronte alla guerra di Gaza. Per Joe Biden e Kamala Harris, il sostegno americano a Israele «non è negoziabile». Come ha affermato Olaf Scholz, la difesa di Israele è per la Germania una «ragion di stato». Appare ora sotto una luce sinistra anche un vecchio aforisma di Jürgen Habermas secondo il quale la Germania avrebbe raggiunto l’Occidente «dopo e attraverso (nach und durch) Auschwitz».
La famiglia occidentale è grande: la difesa di Israele è un principio attorno al quale si sono oggi riunite le estreme destre di tutta Europa, tra le quali si distinguono gli eredi di chi in passato opprimeva, perseguitava e sterminava gli ebrei. Negli Stati uniti, i più convinti sostenitori di Israele non sono gli ebrei ma gli evangelisti, i fondamentalisti cristiani che finanziano le colonie in Cisgiordania.
SI SVOLGE COSÌ la liturgia di un vasto narcisismo compassionevole in cui l’Occidente compiange le proprie vittime ignorando quelle, incomparabilmente più numerose, della propria vendetta. Israele incarna insomma questo doppio statuto di vittima e redentore, gode di una sorta di innocenza ontologica e la violenza del suo esercito è l’azione riparatrice della sofferenza subita. Interrogarne la legittimità, o peggio condannarla è inammissibile, un’operazione politicamente inappropriata e moralmente indegna.
In un anno, Israele ha rasato Gaza, ucciso oltre 40mila palestinesi (altri 20mila sono dispersi), centinaia di giornalisti e funzionari di organizzazioni umanitarie, ma «genocidio» rimane una parola proibita. Chi parla di genocidio a Gaza è antisemita, o complice di Hamas o accecato da false analogie che, colmo dell’infamia, rovesciano i ruoli e mettono gli ebrei al posto dei nazisti.
I soldati israeliani possono mettere in scena i loro massacri come un videogame alla Rambo, rimangono pur sempre dei redentori contro l’incarnazione del male. Benjamin Netanyahu, Bezalel Smotrich, Itamar Ben-Gvir e Yoav Gallant possono definire i palestinesi come animali e promettere di schiacciarli come scarafaggi; possono organizzare convegni sulla ricolonizzazione di Gaza e conferenze stampa per rivendicare la giustezza dei loro bombardamenti di scuole, ospedali e agenzie dell’Onu. Chi osa criticarli sarà richiamato all’ordine e severamente punito dai guardiani europei e americani della virtù occidentale, una virtù difesa da potenti eserciti e celebrata solennemente in una moderna cattedrale ribattezzata «duomo di ferro».
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