È stata una giornata di sole lungo la costa del Mar Nero. «Lo vedi che la primavera è arrivata anche in Ucraina? Te l’avevo detto!» mi ricorda Nadia, la manager dell’hotel, mentre apre la stanza. Alla domanda su come stia risponde sospirando, «non si può più lavorare, non si riesce a fare nulla. Con questa guerra si è fermata ogni cosa. Prima noi avevamo 50 dipendenti, oggi ne son rimasti 3, gli altri sono tutti chissà dove». Non sono in pochi a condividere il disappunto per l’attuale situazione a Odessa. Da un lato ci sono, ovviamente, i cittadini ordinari, che da oltre 50 giorni vivono in uno stato di costante tensione per un attacco che più volte è sembrato «imminente» ma che, ad oggi, è rimasto una minaccia. Il bombardamento di due settimane fa ai depositi di idrocarburi vicino al porto sembrava l’inizio di una nuova fase ma poi si è tornati allo stallo. Anche l’attacco all’incrociatore “Moskva” aveva dato lo stesso sentore, in molti lo interpretavano come l’inizio di una possibile nuova escalation che, tuttavia, almeno per ora, non è iniziata.

DALL’ALTRO LATO ci sono gli imprenditori, gli uomini d’affari e i commercianti che in un porto importante come quello di Odessa hanno interessi molto significativi. Per questa nutrita categoria di persone la guerra è una sciagura in quanto blocca i flussi di denari e clienti e il suo protrarsi costituisce una perdita economica dolorosa che li rende caustici sul futuro prossimo. «Che fare?», sembrano inferire alcuni, «di sicuro fermare il conflitto, riprendere gli scambi e poi preoccuparsi di tutto il resto». Odessa ha già abdicato al ruolo di principale porto del Mar Nero a favore dello scalo marittimo turco del Bosforo e ogni giorno che passa perde ricchezza. Del resto, l’esasperazione è palese nella diminuzione di posti di blocco e di divieti d’accesso al centro città, nelle riaperture dei locali di ristoro e commerciali e nell’estensione del coprifuoco alle 21.

Non possono condividere tale visione i cittadini della vicina Mykolayiv che dal 24 febbraio hanno dovuto farsi carico, giocoforza, della serenità degli altri connazionali di questa parte del Paese. A Mykolayiv interi quartieri sono ancora senz’acqua e il comune ha predisposto delle autobotti a sostegno dei distributori automatici già presenti in città. Durante la giornata è comune trovare decine di persone in fila con boccioni di plastica e taniche di fronte a queste fonti improvvisate. Spesso tutti i presenti alzano contemporaneamente la testa al cielo perché qui i bombardamenti sono costanti. A volte capita che per diverse ore di seguito, magari anche per due giorni, i cannoni tacciano e allora le strade si riempiono di gente in cerca di normalità. In altri momenti i tonfi secchi dei colpi fanno da colonna sonora al silenzio dei viali interrotto solo dai mezzi militari che sfrecciano verso est e verso sud.

A proposito di sud, lungo la costa che si sviluppa sotto Mykolayiv e arriva a Kherson quasi lambendo la Crimea nella foce del Dnipro, gli schieramenti hanno cambiato posizioni. Due settimane fa avevamo potuto verificare di persona che oltre Lymany era quasi impossibile spingersi in quanto la linea di contatto era arrivata più volte a ridosso del villaggio ucraino. Alcuni militari acquartierati in una casa colonica ci avevano mostrato una piccola altura prima di un crocevia dal quale partivano due strade: una sterrata verso sud, scandita da pali della luce di legno e campi coltivati ai lati, che ricorda le rappresentazioni cinematografiche della grande prateria americana; e l’altra irregolare e ondivaga, una sorta di stradone di campagna biancastro che si perde in una discesa poco più avanti. Da quest’ultima si accede a Lupareve, che l’ultima volta non era visitabile, e poi a Oleksandrivka, che stamane i soldati dell’ultimo posto di blocco ucraino indicavano come off limits incrociando le braccia a “x” in segno di diniego. «Ma ci sono i russi lì?» abbiamo chiesto più volte. «Questo non posso dirvelo, ma ora sarebbe meglio che tornaste indietro». Qui i caseggiati sono vuoti, in strada non abbiamo incontrato un solo civile e, a parte i boati dei mortai, il silenzio regna sovrano. Da qualche parte abbastanza nascosta c’è una batteria ucraina che risponde al fuoco giorno e notte, i cannoni puntano verso est e ogni tanto una macchia nera si muove nei dintorni dei mezzi corazzati a ricordare che non si tratta di una postazione strategica ma di un vero e proprio avamposto di difesa.

COSA STIA SUCCEDENDO in questa zona è difficile dirlo, soprattutto in virtù del fatto che più volte abbiamo registrato cambiamenti di fronte, anche nello stesso piccolo lembo di terra. Tuttavia, sembra che i russi abbiano abbandonato la strategia di conquista dei piccoli centri rurali della zona. Troppo dispendiosa in termini di vite umane e mezzi e, soprattutto, poco efficace. Potrebbe darsi che ci troviamo all’inizio di una nuova fase sul fronte sud, ovvero al consolidamento delle posizioni in vista di un fronteggiamento più esteso nel tempo. Potrebbe essere plausibile anche l’ipotesi che Mosca abbia più interesse a consolidare il proprio potere a Kherson invece che a spingersi fino a Mykolayiv e (chissà) oltre.

SIA COME SIA, questa strategia non è inedita. La possiamo riscontrare a Izyum, nell’est del Paese, dove, dopo ripetuti tentativi di conquista, sembra che le forze russe abbiano deciso di aggirare l’ostacolo e puntare direttamente verso l’entroterra, in direzione Poltava e Dnipro. I bombardamenti di queste regioni nelle ultime ore si potrebbero benissimo interpretare in tal senso. Discorso diverso a Kharkiv, dove invece la strategia della conquista “metro per metro” che potevamo osservare nel sud fino a un paio di settimane fa, è ormai la nuova realtà di questo fronte. Si combatte da giorni intorno al capoluogo e il temuto sfondamento russo non è ancora avvenuto. Anzi, le forze armate ucraine hanno annunciato di aver riconquistato 11 villaggi respingendo, di fatto, l’allargamento della zona d’influenza di Mosca oltre frontiera.

PER QUANTO SEMBRI una costante ormai, siamo però obbligati a ricordare che tutto sembra dipendere da Mariupol. Secondo il leader dei battaglioni ceceni, Kadyrov, entro stanotte la fortezza dell’Azovstal cadrà, sia che gli ucraini si arrendano sia che decidano di non deporre le armi. Il che suona come un presagio di morte se si pensa che ci sarebbero almeno 2 mila soldati asserragliati nell’ex-impianto siderurgico che da giorni funge da fortezza delle truppe ucraine rimaste a difesa della città. Secondo stime odierne il rapporto tra difensori e attaccanti oscillerebbe da uno a sei a uno ogni dieci. Intorno alle 21, ora locale, il vice-comandante del reggimento Azov, Sviatoslav Palar, ha dichiarato a Radio Free Europe che i russi starebbero sganciando «bombe potentissime» sull’impianto industriale dell’Azovstal e molte persone sarebbero già sepolte vive sotto le macerie. Secondo fonti locali oltre 1000 civili si starebbero nascondendo al momento nella struttura. Mosca accusa le forze resistenti di utilizzare queste forze come «scudo umano» e comunque non sembra curarsi affatto della loro incolumità.