Questa guerra dura da un anno, o più precisamente da nove. È il 20 febbraio 2014 quando gli «omini verdi» – che poi altro non sono che soldati russi senza mostrine – danno il via all’occupazione militare della Crimea. È il 24 febbraio 2022 quando Putin ordina l’invasione su larga scala dell’Ucraina.
C’è, in questo ricorrere quasi chirurgico di date, un tragico senso di continuità.

NON SI PUÒ CAPIRE la guerra di oggi se non si considera quella di ieri – che è stata, bisogna sottolinearlo, una guerra silenziosa e dimenticata, di cui i giornali e le televisioni preferivano tendenzialmente non parlare. All’indomani delle proteste di Maidan, che portarono alla cacciata del premier filorusso Viktor Janukovyc – e, dunque, a uno spostamento verso occidente del baricentro politico del Paese – nel Donbass e in Crimea cominciarono a entrare in azione gli uomini del Cremlino. Di lì a poco saranno fondate le due repubbliche separatiste di Donetsk e Lugansk, nominalmente indipendenti ma di fatto gestite e foraggiate da Mosca. Due popoli fino ad allora fratelli – russi e ucraini – inizieranno a odiarsi di un odio sordo e feroce, le cui radici hanno poco a che fare con la storia e molto con la geopolitica attuale (leggasi: i rapporti tra Mosca, Washington e i rispettivi alleati).

Se nel 2014 quest’odio ancora destava stupore, oggi esso è la normalità.
Per otto anni la faglia incandescente del Donbass ha continuato a ribollire sottotraccia: poche le grandi battaglie degne di nota (Ilovaisk, Debaltsevo, Sloviansk), del tutto infruttuosi i tentativi di pacificazione tra le parti (ovvero i famosi protocolli di Minsk, puntualmente infranti a colpi di mortaio).

POI, UN ANNO FA, è arrivata la grande escalation – 21 febbraio: Putin riconosce ufficialmente le repubbliche separatiste e vi invia un proprio contingente militare. 23 febbraio: Kyiv dichiara lo stato di emergenza e ordina la mobilitazione dei riservisti. 24 febbraio: inizia l’invasione. Nei mesi precedenti il Cremlino aveva chiesto agli Stati Uniti di sottoscrivere una promessa vincolante che garantisse la non adesione dell’Ucraina alla Nato, minacciando, in caso contrario, una non meglio specificata «risposta militare».

Oggi sappiamo che Mosca era convinta di poter chiudere la partita nel giro di pochi giorni: prendere Kyiv, eliminare Zelensky e sostituirlo con un nuovo presidente filorusso. Mai un abbaglio fu così totale. Era veramente convinto, Vladimir Vladimirovic Putin, che l’Ucraina fosse retta da una giunta neonazista, e che il popolo avrebbe accolto i russi come liberatori? Oppure aveva sottovalutato la preparazione dell’esercito di Kyiv, che dal 2014 a oggi – grazie anche agli aiuti occidentali – ha visto crescere la propria efficienza operativa in modo addirittura esponenziale?

QUEL CHE È CERTO è che la grande battaglia per la conquista della capitale si è trasformata, nel giro di un mese e mezzo, in una rovinosa ritirata verso nord. La stessa cosa è successa a Karkhiv: il 24 febbraio i russi sono alle porte della città, a metà aprile iniziano a ritirarsi dalla regione. L’ultima grande debacle del Cremlino – in ordine puramente cronologico – è quella di Kherson, abbandonata dalle truppe di Putin a inizio novembre.

Cosa è rimasto sul campo dopo questo primo anno di guerra? Sicuramente le macerie di un Paese ormai distrutto (e già c’è chi si frega le mani in vista della prossima ricostruzione). E poi, certo: le vite di migliaia di persone, a cominciare da quelle dei civili trucidati a Bucha, o sotto i continui bombardamenti che hanno raso al suolo interi quartieri. Ma soprattutto resta l’odio, alimentato a ciclo continuo da una propaganda asfissiante e pervasiva: «nazisti» sono gli ucraini secondo i media russi, «orchi» sono i russi secondo i media ucraini. A un anno esatto dal 24 febbraio 2022, la frase più umana a proposito di questo conflitto l’ho sentita pronunciare da un vecchio contadino che raccoglieva le patate in Buriazia, una delle misere regioni siberiane da cui provengono molti dei soldati russi inviati a morire quaggiù. Il contadino fumava una sigaretta e aveva le mani incrostate di terra. «Gli ucraini sono contadini come noi – ha detto -. Pertanto sono miei fratelli, punto e stop. Il resto sono tutte cazzate».