«Le proprietà dei metalli», il paradigma e l’eccezione
Berlinale 73 L'esordio di Antonio Bigini, presentato nella sezione Generation. Il giovane Pietro ha un dono, ma il mondo fatica a riconoscerlo. Uno spunto di riflessione sull’infanzia, la realtà rurale e la diversità
Berlinale 73 L'esordio di Antonio Bigini, presentato nella sezione Generation. Il giovane Pietro ha un dono, ma il mondo fatica a riconoscerlo. Uno spunto di riflessione sull’infanzia, la realtà rurale e la diversità
Il mondo è pronto a riconoscere qualcosa di speciale quando si manifesta? Le proprietà dei metalli, lungometraggio d’esordio di Antonio Bigini presentato nella sezione Generation della Berlinale, ruota intorno a questa domanda. Siamo negli anni Settanta, Pietro è un ragazzino che vive in campagna – il film è girato nella provincia di Arezzo, sull’Appennino tosco-romagnolo – insieme al padre, alla nonna e al fratello più piccolo. La vita di provincia si ripete uguale a se stessa nella sua durezza e sembra soffocare ogni aspirazione. Pietro però ha un dono: i metalli, materiali normalmente stabili nella loro forma, si piegano se sollecitati dalla sua attenzione.
IL RAGAZZINO non ne fa un vanto, anzi, questa stranezza è quasi da nascondere nell’ambiente omologante in cui è immerso. Le carte in tavola cambiano quando un professore (David Pasquesi) viene a sapere del suo caso. L’abilità di Pietro potrebbe allora diventare un mezzo di riscatto e risolvere persino i problemi economici della famiglia. Insomma il mondo «fuori», quello civilizzato e scientifico, può fare di Pietro un fenomeno. Ma alle sue condizioni. Ed è qui che si scontrano i paradigmi, perché in fondo si vede sempre ciò che si vuol vedere e di fronte a un evento che mette in questione il canone si è quanto meno sospettosi. Come De Martino ha spiegato nei suoi libri riferendosi alle tarantate pugliesie non solo, ciò che è vero muta a seconda delle forme di vita, situate storicamente e geograficamente, e accogliere la verità dell’altro è talvolta impossibile. L’uomo di città non crede più alle forze invisibili, e di questo cercherà sempre conferma. Lo stesso professore, seppur bendisposto e interessato al riconoscimento di Pietro, tende a ingabbiarlo in una lettura psicanalitica per tentare di comprendere il suo dono, dove forse la chiave sarebbe invece proprio nel suo ambiente, nella cultura contadina che lo definisce.
Pietro, interpretato da Martino Zaccara, è schivo, silenzioso, quasi come dovesse sentirsi in colpa della sua stessa esistenza; incarna una ferita ma non replica la meschinità che lo circonda. La regia di Bigini lo segue rendendo conto del paesaggio in cui si trova, e seppure una forma che guarda alla tv semplifica le traiettorie del film, questo esordio contiene una storia convincente e toccante che apre a spunti di riflessione sull’infanzia, la realtà rurale e la diversità.
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