Al mercato di Waingapu, capitale dell’isola di Sumba, si mettono in posa, quando tiriamo fuori l’obiettivo. E senza bisogno di fare domande, esibendo tre dita alzate, ci gridano: «Nomor Tiga, Ganjar!». Intorno c’è un affaccendarsi di banchetti di aguglie e tonnetti e banconi con verdure di ogni tipo. Sumba non è un’isola ricca ma un mercato – un pasar – è sempre un mercato. E come chiedi a qualcuno – uomo, donna, imprenditore o operaio – chi voterà, la risposta è sempre quella: «Ganjar». Oppure semplicemente che «Prabowo proprio no!».

GANJAR È IL CANDIDATO del Partito democratico di lotta (Pdi-P) che nelle elezioni del 2019 aveva visto eleggere per la seconda volta il suo candidato – Joko Jokowi Widodo, ora presidente uscente – e conquistare la maggioranza relativa con quasi il 20% dei seggi attribuiti. Prabowo era allora lo sfidante di Jokowi che perse la corsa con un partito (Gerindra) a meno del 13%. Adesso però Prabowo è il candidato favorito nelle elezioni indonesiane di oggi che scelgono presidente, deputati, apparato amministrativo. Prabowo, uomo di destra con un passato da militare infarcito di ombre, fu poi cooptato da Jokowi nel suo governo, mossa che disinnescò le violente manifestazioni di piazza che il perdente aveva guidato contro il suo rivale contestando il risultato. Poi, a sorpresa, Jokowi, pur senza mai farlo ufficialmente, lo ha sponsorizzato per le elezioni.

IL SUO RIVALE diventerà molto probabilmente il nuovo Capo dello Stato (i sondaggi lo danno oltre il 50%) e, male che vada, ce la farà al ballottaggio qualche mese dopo. Ma quella candidatura ha spaccato il Paese e soprattutto il Partito democratico di cui Jokowi è tutt’ora membro. Un partito che Prabowo proprio non lo digerisce.

Il nostro viaggio nell’Indonesia profonda abbiamo dunque scelto di farlo in quelle che sono considerate alcune delle roccaforti dove il Pdi-P può da sempre contare su un bel numero di voti. E la cosa singolare è che, sebbene la popolarità di Jokowi sia fuor di dubbio in tutto l’arcipelago, qui sembra prevalere la fedeltà al partito. A Bali, Sumba, Flores e Timor – isole orientali dove l’Islam fa fatica e le maggioranze sono cristiane, animiste, indù – il Pdi resiste. Anche alle lusinghe dell’ormai ex presidente che, per dimostrare quanto ci tiene a Prabowo, gli ha messo in ticket il figlio Gibran, sindaco di Surakarta (di queste e altre polemiche un buon sunto è Dirty Vote, film di denuncia di Dandhy Laksono appena uscito. Gratis su Youtube, con milioni di visite in due soli giorni).

IN QUESTE ISOLE REMOTE non ne troviamo uno che simpatizzi col faccione di Prabowo Subianto. Dimostrano invece un profondo attaccamento al partito e ai suoi valori. Certo, i grandi giochi si fanno a Giava e li fanno i numeri dell’Islam che può contare sull’87% degli indonesiani. Ed è chiaro che ai cristiani Prabowo non piace. Le ragioni sono tante. Il personaggio si è riciclato con abilità con una campagna rivolta ai giovanissimi con cui, ballando come un orso sui palchi dei comizi, si è guadagnato la nomea del bravo nonno, simpatico e gemoy, come si dice qui: carino. Ha sempre goduto del sostegno della Muhammadiyah, la grande organizzazione islamica modernista ma anche rigorista e purista (forte qui a Lombok e Sumbawa). E ha strizzato l’occhio anche ai partitelli radicali di cui si è servito per le sue marce sulla capitale rivendicando nel 2019 la vittoria toccata a Jokowi.

PEGGIO CHE PEGGIO, ha ammesso candidamente di aver fatto sparire dei giovani attivisti all’epoca della dittatura del generale Suharto, che era anche il padre di sua moglie (da cui ha poi divorziato). A Suharto, Prabowo deve anche una carriera da generale nelle forze speciali che si macchiarono di crimini non solo nelle piazze di Giava o Sumatra ma anche durante la terribile repressione dei rivoluzionari secessionisti di Timor Est.

Ora quel passato è cancellato da esibizioni pubbliche edulcorate da balletti e canzonette e soprattutto dall’appoggio neppur troppo velato di Jokowi. Gli osservatori son tutti d’accordo: Jokowi, non potendosi ripresentare, vuole al governo chi continui il suo programma. Chi meglio di un uomo che gli deve la presidenza e di suo figlio, cui una controversa sentenza costituzionale ha consentito di presentarsi come vicepresidente nonostante la giovane età?

L’OPERAZIONE PRABOWO ha confuso il partito, dilaniato dalla scelta e dall’incapacità della sua leader – Magawati Sukarnoputri – di tenere assieme i ranghi. «Del resto – dice Erwin, un giovane laureato di Sumba – pure lei voleva candidare a presidente la figlia… non si può continuare coi feudi di famiglia». Quella di Sukarno, il padre fondatore, o quella di Jokowi. Dinastie.

Il partito si è spaccato e così anche la Nahdlatul Ulama, organizzazione islamica con 90 milioni di aderenti. Più morbida, sincretica e moderata della Muhammadiyah ha sempre simpatizzato col Pdi-P. Ma uno dei suoi uomini di punta ha scelto di andare in ticket con Anies Baswedan, il terzo incomodo candidato. Oggi 205 milioni di aventi diritto metteranno la scheda nell’urna di un Paese spaccato. Prabowo saprà ricucire?