Le motivazioni etiche dei nuovi storici
Itinerari Molti libri hanno in questi ultimi mesi e giorni proiettato potenti fari sull’«elefante nella stanza», l’enorme rimosso della più lunga e feroce occupazione militare che la storia ricordi, quella israeliana dei territori che erano stati assegnati dall’Onu al futuro stato di Palestina, o del poco che ne resta
Itinerari Molti libri hanno in questi ultimi mesi e giorni proiettato potenti fari sull’«elefante nella stanza», l’enorme rimosso della più lunga e feroce occupazione militare che la storia ricordi, quella israeliana dei territori che erano stati assegnati dall’Onu al futuro stato di Palestina, o del poco che ne resta
Ci sono momenti in cui quel po’ di luce che le apocalissi più spaventose (la parola, si sa, vale «rivelazioni») fanno sulle verità della storia si offusca repentinamente, e quel po’ di consapevolezza delle ragioni e dei torti delle parti in causa che i più hanno acquistato, a un prezzo indicibile di sofferenza altrui, rischia di perdersi. Forse l’attuale è uno di quei momenti. Molti libri hanno in questi ultimi mesi e giorni proiettato potenti fari sull’«elefante nella stanza», l’enorme rimosso della più lunga e feroce occupazione militare che la storia ricordi, quella israeliana dei territori che erano stati assegnati dall’Onu al futuro stato di Palestina, o del poco che ne resta.
Penso a Enzo Traverso, Gaza davanti alla storia (Laterza), ma anche a Gad Lerner, Gaza, Odio e amore per Israele (Feltrinelli), al toccante Il suicidio di Israele di Anna Foa (Laterza), all’appassionato fact-checking di Arturo Marzano dal titolo Questa terra è nostra da sempre. Israele e Palestina (Laterza), alla nuova edizione ampliata del classico di Paola Caridi Hamas (Feltrinelli). Quanta luce, finalmente.
Eppure, è bastato che balenasse l’idea di un regime change in Medio Oriente, addirittura di un colpo mortale che Israele potrebbe infliggere alla teocrazia iraniana, perché tutto rischi improvvisamente di essere dimenticato: la più grande carneficina di civili in questo secolo, che a Gaza continua e in Libano (ri)comincia, la Cisgiordania sparita dalle cartine di Netanyahu, le accuse di genocidio pendenti su Israele alla Corte dell’Aja, la risoluzione presa dalle Nazioni Unite a schiacciante maggioranza solo il 18 settembre scorso (che chiede a Israele di cessare il fuoco e ritirare le sue forze armate da Gaza e dalla Cisgiordania, in omaggio al severissimo parere consultivo emesso il 19 luglio dalla Corte dell’Aja stessa sulle conseguenze legali dell’occupazione), la richiesta di mandati d’arresto internazionali da parte della Corte Penale Internazionale per i capi del governo e della difesa israeliani (che hanno pensato a eliminare senza storie giudiziarie i tre leader di Hamas equiparati a loro nella condanna della CPI), il sangue innocente che continua a colare senza fine dietro i miliardi di specchi dei nostri telefonini.
Tutto perdonato? In grazia del «lavoro sporco» (Gad Lerner) che Israele si incarica di fare, a beneficio di chi? Tre volte l’ha ribadito ieri al Consiglio di Sicurezza dell’Onu la delegata statunitense il pieno, pienissimo appoggio a Israele nelle sue azioni contro l’Iran. Ma s’è sentito anche nei più innocui conviti del mondo della cultura, virare il vento.
«Le guerre nascono nella mente degli uomini», recita l’esordio della costituzione dell’Unesco. Raramente è dato vedere con tanta chiarezza come nascono, nell’esempio di una mente che si apre in pubblico. «Quell’uomo ha rilasciato una dichiarazione disgustosa sull’attacco iraniano e non l’ha condannato. Sono contento che Israele non permetterà a questo idiota di entrare nel Paese».
«Quell’uomo» è il Segretario Generale dell’Onu, che infaticabilmente ribadiva gli argomenti dell’umana ragione, nel linguaggio del diritto internazionale. E a dargli dell’idiota e dell’uomo disgustoso non è un presunto criminale di guerra, che c’è già dentro fino ai capelli, e per il quale è parte del mestiere usare le parole come pistole. È Benny Morris, che le ha ribadite in un’intervista rilasciata a «La Stampa» (3 ottobre).
Cioè il primo dei «nuovi storici» di Israele, quello che già nel 1988, in un famoso libro sulla nascita del problema dei rifugiati palestinesi, aveva provato come «la Nakba non sia stata una conseguenza della guerra fra i paesi arabi e Israele, iniziata nel maggio del 1948, ma – essendo cominciata prima – sia legata ai rapporti fra popolazione araba ed ebraica all’interno della Palestina britannica» (A. Marzano 2024).
Cioè: all’origine della tragedia è proprio la pulizia etnica, la virtuale soppressione della gente che abitava lì da sempre. Ci sono uomini non solo capaci di vedere una verità morale occultata da altri, ma che non hanno affatto bisogno di nasconderla di nuovo, per rigettarla come motivazione etica, dato che gliene preferiscono una etnica. Che dicono cioè: «È verissimo: e allora?».
Di questa tempra è Benny Morris, che fra i «nuovi storici» è stato il solo a rammaricarsi apertamente «che questa pulizia etnica non sia stata completata» (Traverso 2024). A proposito di «lavoro sporco».
Già, chi siamo noi per giudicare. Una cosa è certa, però: altro luogo che le nostre menti non c’è, dove le guerre si possano anche spegnere. Dove a tutta la verità morale su cui la cognizione del dolore ha fatto finalmente luce non si risponda così: «e allora?». Purché il vento dell’opinione che vira non la spenga di nuovo, la luce. E tutti quei libri fatti per alzare «nella mente degli uomini … le difese della pace» (Unesco) non siano stati scritti invano.
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