Le mafie sono mobili, camaleontiche e non conoscono confini regionali: la lotta alla criminalità organizzata interessa tutte e tutti, da sud a nord. L’idea, ancora radicata, che il fenomeno mafioso riguardi esclusivamente l’Italia meridionale, infatti, si scontra con i dati di realtà e rischia di spalancare la porta d’accesso a queste organizzazioni. Il Centro di documentazione e inchiesta sulla criminalità organizzata del Veneto, diretto da Gianni Belloni, sta portando avanti un lavoro d’inchiesta per stimolare il dibattito pubblico sulla presenza mafiosa nel tessuto economico e imprenditoriale della regione.

Mafie e Veneto, qual è la relazione?

Il Veneto ha scoperto le mafie recentemente. Dall’autoaffondamento della banda Maniero (la cosiddetta “mala del Brenta”, ndr) nel 1995 al 2011 non c’è stata una vera azione di contrasto; quindi, non si è parlato di mafie e così si è radicata una tendenza negazionista. Bisogna però dire che gli insediamenti mafiosi in alcuni territori veneti si sono riscontrati già negli anni ‘70, quindi parliamo di un radicamento che è comprensibile solo se analizzato dentro a una dinamica di alleanze in alcuni business e anche dinamiche politiche.

L’idea che il fenomeno mafioso provenga dal sud e inquini un tessuto politico e imprenditoriale veneto sano è quindi una narrazione che non ha fondamento?

Sì, essendo egemone in questa regione una cultura politica come quella leghista la mafia viene vista come un cancro che aggredisce un corpo sano. È una retorica che vorrebbe essere rassicurante, che però non aiuta a comprendere il tipo di problema che abbiamo di fronte: gruppi mafiosi che si interconnettono all’interno di cartelli collusivi radicati e autoctoni.

Oggi c’è una maggior percezione di questo pericoloso intreccio?

Anche grazie al ruolo della magistratura c’è sicuramente una maggior percezione. Il problema però è che talvolta l’azione di contrasto illumina il solo soggetto mafioso lasciando invece in ombra le reti relazionali, le aree grige all’interno delle quali le mafie sono compartecipi. Penso invece che il problema sia reticolare: i gruppi mafiosi non agiscono mai da soli. Leggere il fenomeno mafioso in questi termini costringe a guardare il contesto in cui le mafie operano. La condanna dell’ex sindaco di Eraclea Graziano Teso per concorso esterno in associazione mafiosa ha fatto capire che non è possibile applicare il paradigma del contagio ma che serve fare i conti con le culture politiche e imprenditoriali autoctone.

Restituire la complessità del fenomeno diventa utile anche per mettere al riparo i miliardi di euro che stanno arrivando in Veneto dal Pnrr?

I fondi del Pnrr rappresentano senz’altro un terreno fertile per le mafie e per i cartelli collusivi affaristici che sono abituati a lavorare a ridosso della finanza pubblica. In Veneto su questo abbiamo una lunga tradizione: siamo la terra del più grande scandalo corruttivo dell’Italia repubblicana, quello che viene chiamato lo scandalo Mose, che ha coinvolto pezzi importantissimi della classe politica e imprenditoriale. La questione dell’accesso truffaldino ai fondi del Pnrr riguarda quindi non solo le mafie ma anche un dispositivo complesso e relazionale.

A dieci anni di distanza, lo scandalo Mose cosa ci dice in più sulle dinamiche di criminalità in Veneto?

Sono temi che affronteremo nel convegno che abbiamo promosso con il nostro Centro e che si terrà a giugno. È importante impedire la rimozione che su questo tema è stata tentata in questa regione. Dopo l’inchiesta, infatti, si è voltato pagina. C’è però da capire se quelle dinamiche sono sopravvissute in questi ultimi 10 anni, se si sono sviluppate, se ci sono nuovi attori, e quindi se la tendenza all’imprenditoria relazionale che gravita sulle risorse del pubblico sia ancora in piedi oppure no.

Di fronte a una fotografia così complessa e drammatica cosa possiamo fare come cittadini?

In collaborazione con Libera abbiamo lanciato l’idea e la pratica del monitoraggio civico, cioè il controllo dal basso che permette di monitorare tutte le fasi delle opere pubbliche. Si tratta di un’esperienza fondamentale anche per dare forma a una cultura che ci responsabilizza tutti e tutte.