Le idi di May, la premier capitola. Tories allo sbando
Missione incompiuta «Profondo rammarico per non aver attuato la Brexit», la leader dei conservatori cede alle pressioni dei suoi: si dimetterà il 7 giugno. Il partito annuncia che entro la fine di luglio ci sarà il successore. L’ex ministro Boris Johnson ci crede
Missione incompiuta «Profondo rammarico per non aver attuato la Brexit», la leader dei conservatori cede alle pressioni dei suoi: si dimetterà il 7 giugno. Il partito annuncia che entro la fine di luglio ci sarà il successore. L’ex ministro Boris Johnson ci crede
Alla fine The end of May è stata The end of May, le idi di maggio di Theresa. Se ne andrà il sette giugno: l’ha annunciato ieri, in tarda mattinata, dopo aver tentato per l’ennesima volta di salvare il suo accordo per l’uscita dall’Ue, incontrando un ormai familiare muro di astio e dileggio nel suo stesso partito e perdendo altri pezzi del suo ormai sgangherato governo.
Resterà a gestire la baracca finché il partito consuma la scelta di un successore, entro la fine di luglio. Che potrebbe essere l’ineffabile Boris Johnson, ma ci arriviamo fra un attimo. Le resta solo un ultimo boccone da deglutire: quello screanzato di Donald Trump in controversa visita di Stato, da accogliere il tre giugno prossimo. La guarderemo un’ultima volta imbarazzati dalla sua incapacità di instaurare una quale che sia empatia con chi ha di fronte, figuriamoci con Trump. Nel frattempo Jeremy Corbyn ha l’occasione di rivisitare la filastrocca che ormai recita da mesi: elezioni anticipate, cos’altro?
UN DISCORSO di commiato, quello di May, da capoclasse scolastica quale è sempre stata: compìto come al solito, tradito da un soprassalto di emotività solo alla fine. Quella crepa nella voce da cui traspariva che la figlia del pastore (di anime), nonostante la miopia politica e l’ego disumano che affligge la categoria tutta, è una figura “esemplare” di servitrice dello stato. E che se si era incollata – stile Extinction Rebellion – alla porta di Downing Street così ostinatamente da perdere il senso della realtà era perché credeva per davvero di poter servire il suo paese. Ma è la quarantaduesima figura del suo stesso governo a dare le dimissioni, una frase che non avremmo mai pensato di scrivere seriamente, e questo dà la misura della debacle da lei presieduta. E poi una lacrimuccia – peraltro dedicata al proprio fallimento – davanti alle telecamere non va gabellata per umanità.
May è pur sempre un ex-ministra dell’interno che ha attuato una politica brutale nei confronti dei migranti, che con il suo ormai famigerato «cittadini di nessuna parte» ha aggiogato i Tories al carrozzone sovranista, sotto la cui supervisione si sono consumate porcate galattiche come i rientri forzati subiti dalla cosiddetta Windrush generation e che ha bellamente continuato l’austerity da pulizia sociale del suo rivale Osborne, da lei rimosso senza tanti complimenti e che dalla tribuna del giornale che ora dirige (per gentile concessione di un oligarca russo) non ha fatto altro che darle addosso per vendetta. Del resto questo è lo stile Tory, consolidato dalla familiarità con il potere: pensare alla propria carriera con la scusa del bene del Paese. Se non è questa loro gestione di Brexit a dimostrarlo è difficile capire cos’altro possa.
QUESTE DIMISSIONI, che sono come un film già visto che non si riusciva mai a vedere, sono state innescate dalla maledizione Brexit. May è «solo» la seconda leader Tory a mollare dopo esservisi ustionata irreparabilmente. Sono la fine di un’eutanasia cominciata tre anni fa, quando il suo partito la designa in quanto a) gran lavoratrice e b) merce spendibile in un conflitto dove si sapeva non ci sarebbero stati prigionieri. Del resto i Tories litigano sull’Europa da secoli e nemmeno Disraeli sarebbe riuscito a uscire vivo da un problema come Brexit, figuriamoci Theresa May. Il suo One Nation Conservatism (attenzione alle politiche sociali) per recuperare i ceti massacrati dalla gestione degli etoniani che l’avevano preceduta – Cameron, Osborne e ora forse Johnson -, era in aperta contraddizione con la svolta sovranista che ha caratterizzato la sua gestione (lei, una remainer) della British Exit. Che a sua volta è la manifestazione insulare di un problema continentale che ha nella crisi del 2008 e il conseguente impoverimento delle classi medio-basse la propria origine e che sancisce la relegazione dell’Europa sempre più ai margini del mondo che aveva così a lungo dominato. E poi, tanto per tornare alle minuzie tattiche, quell’errore epocale di chiamare a sorpresa elezioni anticipate nel 2017, sperando di annichilire il Labour e invece rinforzandolo e perdendo la maggioranza che l’avrebbe resa ostaggio di un partitucolo oscurantista come i democratici nordirlandesi del Dup.
Ora il probabile ingresso in scena di Johnson sarebbe il perfetto epilogo di questa commedia in tre atti in cui tre ministri Tory (contando anche Johnson) in poco più di un lustro hanno liquidato il retaggio del – e la vocazione al – dominio del loro partito, che da tre secoli abbondanti la faceva da padrone a Westminster e che rischia ora di scivolare dietro ai Verdi. Dietro ai Verdi.
Ora che toccherà verosimilmente a lui, Johnson dovrà vedersela con la realtà. La schadenfreude di vederlo perdere la sua verve falstaffiana quando si troverà a gestire un problema immane che travolgerà inevitabilmente pure lui è magra consolazione. Intanto aspettiamoci il ghigno di Farage domenica sera sparato in mondovisione.
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