«Io sono stata una vittima del parto cesareo. La prima volta, nel 2016, mi hanno trattenuto in ospedale undici giorni, la seconda, nel 2017, sono stata detenuta 45 giorni». Sono le parole che una donna ugandese di 31 anni, H.L., ha detto agli operatori dell’ong ugandese Initiative for social and economic rights (Iser).

H.L è solo una delle tante donne che in Uganda sono state, e sono tuttora, trattenute negli ospedali dopo aver partorito. Il sistema sanitario nazionale non riesce a coprire tutto il territorio e a fornire delle strutture attrezzate anche per le emergenze, con il risultato che spesso le donne che riscontrano complicazioni durante la gravidanza si vedono costrette a rivolgersi agli ospedali privati, la maggior parte dei quali gestiti da congregazioni religiose cattoliche e protestanti.

I problemi arrivano però quando sembra che il peggio sia passato: una volta dato alla luce il nascituro, alle madri viene recapitato il conto che arriva a toccare cifre esorbitanti, fino ad alcuni milioni di scellini ugandesi, più del triplo di uno stipendio medio (200mila scellini). Finché il debito non è completamente estinto madri e figli sono trattenuti in ospedale contro la loro volontà.

AD AGOSTO, come riporta il Guardian, due donne ugandesi, Akello Esther Susan di 23 anni e N.S. minore al momento dei fatti, hanno fatto causa contro lo Stato ugandese, due consigli regionali e la diocesi cattolica romana di Lugazi che risulta proprietaria del St Francis Hospital Nkokonjeru. Entrambe si sono rivolte a strutture pubbliche del servizio sanitario nazionale che però non avevano la possibilità di far fronte alla situazione di emergenza in cui si trovavano le pazienti.

Questo ha spinto le due giovani a rivolgersi alla struttura privata St Francis Hospital Nkokonjeru, sostenuta tra gli altri dalla USAid, agenzia statunitense per lo sviluppo internazionale. Una volta partorito, le due donne si sono viste recapitare un conto che non erano in grado di saldare e per diverse settimane sono state trattenute in ospedale.

L’avvocata delle due donne, Elizabeth Atori, ha dichiarato al Guardian che spera «di ottenere da parte della corte una dichiarazione che riconosca la detenzione delle madri negli ospedali come illegale e incostituzionale». Alle due donne, in ospedale, non sono stati forniti nemmeno pasti e cure post operatorie: «Non potevo mangiare per allattare, dovevo fare affidamento sul cibo che mi portava mia madre, che però stava cercando i soldi per liberarmi» ha detto Akello.

Nell’ultimo report dell’Iser sulle detenzioni illegali, risalente al 2021, sono state ascoltate decine di donne rimaste prigioniere negli ospedali. Molte raccontano di come fossero controllate a vista dalle guardie di sicurezza ospedaliere: «Non mi era permesso andare oltre il cancello di entrata. Per avere qualcosa che venisse dall’esterno dovevo mandare uno degli agenti della sicurezza», ha raccontato C.M. all’Iser.

IL DOCUMENTO dell’ong evidenzia come questo problema derivi da una mala gestione della sanità pubblica per cui i finanziamenti statali, dati in buona parte agli ospedali privati, non bastano per creare un sistema sanitario accessibile ed efficiente in tutto

il paese. La situazione del sistema sanitario ugandese e i molti episodi di detenzioni illegali negli ospedali hanno conseguenze pesanti sulle madri trattenute che, allontanante dalle famiglie e in alcuni casi dai figli, cadono in depressione post partum.

Ma anche le future madri provenienti da contesti a basso reddito, come dice la responsabile dell’Iser Allana Kembabazi, «non andranno in ospedale se non per casi di vita o di morte». Oltre alla salute delle pazienti, la pratica delle detenzioni aggrava lo stato economico delle famiglie, costrette a chiedere prestiti e a spendere tutti i risparmi per liberarle.