Il 2 aprile Vladimir Putin si è rivolto al presidente bielorusso, Alexander Lukashenko, e ha parlato con trasporto dei traguardi che i governi di Mosca e di Minsk hanno raggiunto nel corso degli ultimi mesi. «Di recente siamo riusciti a fare molto per l’integrazione e la cooperazione bilaterale», ha detto il capo del Cremlino: «Abbiamo approvato documenti importanti sul piano economico, una dottrina militare aggiornata e un nuovo concetto di politica migratoria».

QUEL GIORNO SI CELEBRAVA l’unità fra le due nazioni, una data che diventa sempre più significativa per Putin. Prima di tutto perché Lukashenko è l’ultimo alleato che gli è rimasto sulla mappa dell’Europa. Ha avuto sinora un ruolo importante nelle operazioni militari in Ucraina e nella prima parte dei negoziati di pace, e su questi specifici punti non è escluso che possa in futuro anche condizionare le decisioni dei vicini.

E poi perché proprio a Lukashenko sembra che Putin debba la trovata retorica che da qualche tempo usa in modo insistente e che di conseguenza tutti i ministri, portavoce e funzionari della sua enclave ripetono quotidianamente. La trovata è quella di «occidente collettivo».

Nel lessico degli ultimi cent’anni il termine «collettivo» ha seguito in Russia, com’è noto, un’evoluzione articolata e non sempre lineare. Anche per questo è interessante il fatto che sia recuperato, oggi, nella cerchia del Cremlino in un contesto radicalmente diverso rispetto al passato.

Putin ha usato in pubblico l’espressione «occidente collettivo» per la prima volta esattamente un anno fa, in un discorso al Consiglio federale. Dopo avere ricordato la vicenda dell’ex presidente ucraino Viktor Yanukovich, fuggito da Kiev nel bel mezzo della rivolta del 2014, ha ripiegato sulle proteste di quelle settimane nei principali centri della Bielorussia e sulle responsabilità di governi stranieri.

«ABBIAMO SAPUTO che c’era un piano per rovesciare il governo e assassinare Lukashenko», le parole di Putin: «Il cosiddetto occidente collettivo non è in grado di condannare neanche azioni così spregiudicate. E’ sbagliato pensare che non si siano accorti di nulla. Semplicemente a loro non interessa».

Già qualche anno prima, nel 2016, il Consiglio russo per gli Affari internazionali aveva pubblicato un lungo rapporto, frutto di un confronto con gli esperti stranieri del Valdai Club. Il rapporto era intitolato «La Russia e l’occidente collettivo: la nuova normalità».

Dal punto di vista pratico il concetto di «occidente collettivo» era spiegato con «la grande alleanza che si è sviluppata attorno agli Stati Uniti e che comprende la Nato e il sistema di accordi bilaterali con un certo numero di paesi asiatici».

DI FRONTE alla contrapposizione divenuta, secondo gli autori, indiscutibile dopo i fatti del 2014, ogni governo, a partire da quelli europei, avrebbe affrontato una questione esistenziale: «Siamo davanti alla possibilità di cambiare le vecchie coalizioni per generarne di nuove? Oppure si tratta soltanto di una fase temporanea, che non condurrà ad alcuna novità strutturale? La Russia segue il primo approccio, anche perché considera i piani degli Stati Uniti destabilizzanti. Questo significa che potrebbe assumere iniziative preventive».

Ce ne sarebbe abbastanza per spiegare la postura russa nella lunga crisi che ha portato le truppe dentro i confini dell’Ucraina, una decisione che ha provocato in poco più di un mese decine di migliaia di vittime e milioni di sfollati.

Putin, come detto, ha atteso, cinque anni abbondanti dal documento del Consiglio per gli Affari internazionali prima di integrare l’idea di «occidente collettivo» nel suo linguaggio. Quando lo ha fatto ha misurato il senso politico di quelle due parole con i toni moraleggianti su cui intendeva costruire la diversità della Russia rispetto ai suoi interlocutori, a partire dagli Stati Uniti e dei loro «piani destabilizzanti».

QUEI TONI negli ultimi anni si sono riverberati su decine di iniziative legislative e su una riforma costituzionale. Ora si scontrano proprio con il crudele e sanguinoso disordine generato con la guerra in Ucraina.