Le armi del diritto e quelle della diplomazia
Dopo Carla Del Ponte, nota ex-Procuratrice dei Tribunali per i crimini di guerra nella ex-Jugoslavia e in Rwanda, anche il Presidente Usa Joe Biden ha definito Vladimir Putin un criminale di guerra e ha evocato la volontà di intentare un processo per crimini di guerra. Qual è il significato giuridico e politico di queste affermazioni?
La cosiddetta “operazione militare speciale”, che nelle intenzioni di Putin doveva essere una scampagnata domenicale, si sta dimostrando atroce come tutte le guerre: donne stuprate, fosse comuni, civili massacrati. Finanche tra due comunità così prossime dal punto di vista etnico, linguistico e religioso, oltre che geografico, come quelle russa e ucraina, hanno luogo orrori che abbiamo visto in tutte le guerre civili.
L’esercito russo si trova oltretutto avvantaggiato dalla censura vigente all’interno del Paese, che impedisce all’opinione pubblica di conoscere i reati commessi. Quando nel 1968 le truppe americane commisero il massacro di My Lai, alcuni coraggiosi giornalisti americani aprirono il caso e riuscirono a portare di fronte alla corte marziale alcuni dei responsabili. Il tenente William Calley fu condannato all’ergastolo, anche se poi fu graziato dal Presidente Nixon. Non rischiano nulla di tutto ciò i soldati russi.
È quindi sacrosanto che la comunità internazionale faccia sentire la propria voce per porre fine al conflitto e per ridurre gli aspetti più drammatici della guerra. Spicca invece l’assenza di una azione più coraggiosa delle Nazioni Unite e del suo Segretario generale, che dovrebbe fare ogni sforzo per giungere ad un incontro tra le parti sotto la supervisione autorevole di un numero cospicuo di stati. È triste dover constatare che Francesco I sia stato diplomaticamente più attivo di António Guterres. Gli strumenti per indurre i belligeranti alla moderazione sono purtroppo pochi, ed essi si riducono al diritto e alla diplomazia. E in alcuni casi non si possono usare tutti e due insieme.
La redazione consiglia:
Crimini di guerra e Corte penale, la doppia morale dei diritti umani“Il diritto internazionale è la parte più debole del diritto pubblico, e il diritto di guerra è la parte più debole del diritto internazionale”, insegnava Antonio Cassese. Per quanto riguarda gli strumenti del diritto, grazie alla Corte penale internazionale (Cpi), fondata solamente nel 1998, anche come reazione emotiva ai genocidi visti nell’ex-Jugoslavia e in Rwanda, i responsabili di una aggressione ad uno stato sovrano e di crimini di guerra possono essere perseguiti individualmente. A condizione che i propri governi abbiano firmato e ratificato lo statuto della Corte. Sebbene 123 stati ne facciano parte, ci sono anche notevoli eccezioni e tra di esse ritroviamo Stati uniti, Cina, India, Israele. E Russia. In questa lista troviamo gli stati più popolosi del mondo, quelli dotati degli arsenali nucleari più potenti e ben tre dei cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza. Tutto ciò non fa che indebolire l’azione della Cpi.
L’Ucraina, pur non essendo membro della Cpi, ha sin dal 2013 accettato la giurisdizione della Corte per crimini commessi nel suo territorio. È quindi del tutto legittimo che il Procuratore Karim Ahmad Khan stia indagando sui crimini commessi sul suo territorio, auspicabilmente anche con la collaborazione di organizzazioni non governative capaci di documentare i crimini e di identificare i responsabili.
Le forze russe hanno già dimostrato che non hanno alcuna intenzione di avviare indagini sui crimini commessi a Bucha: nel giro di poche ore, hanno detto che i cadaveri lasciati per strada erano quelli di attori e che si trattava di una messinscena della Nato, per poi dire che le vittime erano stati uccisi da bombardamenti ucraini, per poi dire ancora che erano stati gli ucraini a giustiziare i collaborazionisti. I procuratori ucraini sono invece al lavoro, ma come abbiamo imparato durante le guerre dei Balcani, forniranno un quadro di parte di quel che è successo.
È per questo necessario che ci siano indagini imparziali, come quelle che può svolgere la Cpi, coadiuvata dalle organizzazioni non governative che si trovano sul terreno. Nella nostra epoca, ogni civile dotato di cellulare con telecamera è im detective potenziale, tanto che la Cpi ha già aperto i canali per raccogliere autonomamente qualsiasi informazione. Molti di questi crimini di guerra sono compiuti da generali sul campo, e iniziano già ad affiorare i nomi e le foto di eventuali comandanti. Tutti costoro rischiano di essere messi sotto processo qualora dovessero abbandonare la propria patria. È comunque un piccolo deterrente contro il ricorso sistematico a crimini di guerra. Risulterà tuttavia ben difficile risalire per la catena di comando per provare che il responsabile principale si trova al Cremlino.
Ma occorre distinguere chiaramente le responsabilità del potere giudiziario da quello esecutivo. I politici farebbero bene a non evocare processi, prima di tutto per la necessità di mantenere il potere giudiziario indipendente, per quanto embrionale esso possa essere a livello internazionale. E poi perché il loro compito è negoziare, anche nei momenti più atroci, per prevenire che le barbarie proseguano. Non può un capo di stato definire Putin un macellaio e criminale di guerra e poi allo stesso tempo avviare quei quanto necessari negoziati che conducano il prima possibile al cessate-il-fuoco.
I crimini di guerra oggi commessi dimostrano ancora una volta quanto sia necessario un potere giudiziario, anche penale, internazionale autorevole e indipendente. Gli stati che non hanno ancora aderito alla Corte, Stati uniti inclusi, farebbero bene ad aderirvi il prima possibile e a sostenere il suo operato. Speriamo solo che i giudici internazionali abbiano più coraggio di quei governi che finora hanno ostacolato il loro lavoro.
* Co-autore di Delitto e castigo nella società globale, edito da Castelvecchi
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