“Il mio lavoro consisteva nel risolvere i problemi del signor Trump. Mettere a posto le cose. Renderlo felice”. Michael Cohen, l’uomo che per anni è stato l’avvocato e faccendiere di The Donald, ha descritto così il suo lavoro, un impiego dai contorni sfumati e dalla finalità inequivocabile.

Questa è l’ultima settimana di udienze per quello che probabilmente sarà l’unico processo penale contro il tycoon prima delle elezioni, ed è la settimana della deposizione di Cohen.

Sono 4 settimane che la sua testimonianza aleggia sul processo: per anni ha saputo tutti i segreti di Trump, in particolare quelli più delicati in quanto, come ha detto in aula, il suo ruolo era come quello di mr Wolf in Pulp Fiction: risolvere problemi.

Tutto il processo, ma in particolar modo la testimonianza di Cohen, sembra la sceneggiatura di un film di Scorsese d’ispirazione shakespeariana.

Cohen è un caso raro nell’universo dei soci di Trump: molti altri assistenti e collaboratori del tycoon che hanno rischiato il carcere, alla fine hanno ottenuto la grazia o la clemenza, hanno evitato il peggio e continuano a sostenere l’ex presidente.

La storia di Cohen è molto diversa.

Il racconto che arriva dall’aula è quello di un avvocato non particolarmente brillante ma abbastanza di successo da poter acquistare degli appartamenti in due dei palazzi di Trump, e che riesce a farsi notare risolvendo una diatriba nell’assemblea condominiale della Trump Tower.

Da qui per Cohen inizia una discesa agli inferi; l’avvocato racconta che per proteggere e servire al meglio Trump non ha avuto scrupoli nell’usare ogni bassezza pur di risolvere la vita a quello che più di un datore di lavoro era il suo mito, nella cui orbita era riuscito ad entrare, fino al punto da non avere mai bisogno di un appuntamento per incontrarlo, di avere tutti i suoi contatti e quelli dei suoi famigliari. E che questo lo faceva sentire “come se fossi in cima al mondo”.

Le due ultime testimonianze del processo sono un’architettura complementare. Trump ha sempre negato di avere avuto una tresca con la pornostar Stormy Daniels, la donna, invece, ha testimoniato il contrario, e Cohen ha completato l’opera affermando che il tycoon era a conoscenza del pagamento in nero di 130.000 dollari per comprare il silenzio di Daniels, fatto passare per “spese legali” all’interno della contabilità della Trump Organization.

Cohen ha raccontato l’incontro del febbraio 2017 con Trump nell’ufficio Ovale per confermare il rimborso, ricevuto tramite 11 assegni, per un totale di 420.000 dollari, cosí come era stato concordato con Allen Weisselberg, direttore finanziario della Trump Organization.

Nei due giorni di interrogatorio da parte dell’accusa il fine non è stato solo quello di dimostrare la colpevolezza di Trump, ma anche di dare credibilità a un testimone che in altre occasioni ha più volte testimoniato il falso sotto giuramento.

Interrogato dall’accusa, Cohen ha ammesso di avere mentito un po’ a tutti: nel 2018, dopo che la storia con Stormy Daniels era divenuta pubblica, ha detto di avere mentito prima al Congresso sulle trattative di Trump con i russi per la costruzione di una Trump Tower a Mosca, e poi ai federali che avevano perquisito la sua casa e il suo studio. Dopo il blitz dell’Fbi Trump gli disse di non preoccuparsi e questo bastò per rassicurarlo. Quando il tycoon twittò “Stay loyal” (“Resta leale”), Cohen pensò che quel tweet servisse per comunicare con lui. Allora mentì anche alla Fec, la commissione elettorale federale.

A quel punto, secondo la testimonianza di Cohen, Trump, dopo l’inchiesta dell’Fbi, cercò di mantenere un canale segreto attraverso Bob Costello, legale di Rudy Giuliani. Ma Cohen capì che Trump stava cominciando a prendere le distanze da lui, inizia a vedere della diffidenza e ad aver paura di essere abbandonato e di dover pagare il prezzo delle azioni del suo capo.

Da qua comincia la redenzione: Cohen ritorna a pensare alla sua famiglia, smette di mentire, si dichiara colpevole e finisce in prigione. E più di tutto si rivolta contro Trump, contro l’uomo per cui ha fatto di tutto e che lo ha abbandonato.

Cohen racconta che tutte le volte che ha mentito lo ha fatto per lealtà nei confronti di Trump, per il quale “si sarebbe preso una pallottola”.

Questa serie di ammissioni hanno smontato la prima linea di attacco da parte della difesa di Trump che ha cercato di colpire Cohen descrivendolo come rancoroso e desideroso di vederlo in prigione. Cohen ha risposto come Stormy Daniels “Si, voglio vederlo in prigione. Se ha commesso un reato voglio vederlo in prigione”.

Al contrario di altre udienze, durante la deposizione del suo ex faccendiere Trump non ha fiatato, nemmeno quando Cohen ha tratteggiato un quadro che sembrava uscito da I Sopranos, dove “il capo” non usa la mail perché “le email sono come documenti scritti. Ci sono troppe persone che sono state incastrate” perché i “procuratori” avevano accesso alle loro email.