Come su tutte le incresciose tare della moderna società capitalista, anche sul fenomeno dei cosiddetti «lavoratori poveri» la scienza economica offre due interpretazioni antagoniste. La dottrina liberista prevalente considera il caso del lavoro povero come un piccolo bug di sistema, un errore circoscritto e in fin dei conti rimediabile.

La circostanza che i famigerati salari di equilibrio si trovino al di sotto delle soglie minime di sussistenza è ritenuta un’aberrazione del tutto secondaria, che si situa ai margini del processo produttivo e che può essere risolta facilmente, magari con qualche ora in più di straordinario.

La chiave di lettura di Marx è diversa. L’immiserimento operaio, a suo avviso, rappresenta uno dei fondamentali pilastri che reggono il meccanismo capitalistico. Nella visione marxiana, l’accumulazione di ricchezza della classe dominante richiede, per forza di cose, accumulazione di miseria tra le file della classe lavoratrice. In questo senso Marx cita Mandeville: «In una nazione libera in cui non siano consentiti gli schiavi, la ricchezza più sicura consiste in una massa disponibile di poveri laboriosi». Un esercito di indigenti a buon mercato, in altre parole, è condizione necessaria per il funzionamento del sistema.

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L’evidenza empirica di questi anni, come sempre più spesso accade, tende a confermare l’eresia marxiana. L’accumulazione avanza, i profitti si espandono, eppure il «lavoro povero» si ripresenta di continuo, come una macchia incancellabile del capitalismo contemporaneo. Qualcuno ha osservato, giustamente, che i lavoratori poveri sono diventati i maggiori filantropi della nostra società: sopportano le privazioni in modo che l’inflazione non cresca troppo e i profitti delle azioni siano sempre più alti. Essere un lavoratore povero significa essere un donatore anonimo, a favore dei padroni.

Nonostante i ripetuti proclami delle istituzioni europee sulla lotta contro il fenomeno del lavoro povero, Eurostat segnala che dal 2008 la percentuale di lavoratori a rischio povertà in Europa è rimasta grosso modo stabile intorno al 6 percento tra i cosiddetti regolari ed è diminuita solo di un risicato punto percentuale, arrivando al 13 percento, fra i temporanei. In Italia le cose sono andate anche peggio: dalle nostre parti la minaccia della povertà resta marcatamente al di sopra delle medie europee e per giunta è aumentata di un punto tra i precari e ancor più tra i regolari, di due punti e mezzo.

Il fatto che in Italia la povertà sia in aumento soprattutto tra i lavoratori regolari mostra che la vecchia tesi dei contratti a tempo indeterminato come fonte di sicurezza economica inizia a risultare desueta. Le riforme del lavoro come il Jobs Act e la crisi del sindacato espongono ormai anche molti “privilegiati” del tempo indeterminato a un tangibile rischio di immiserimento. Quello che i liberisti definivano «apartheid del mercato del lavoro», con i regolari in paradiso e i precari all’inferno, è insomma finito nel peggiore dei modi: adesso tutti possono precipitare verso una infernale penuria.

Ma soprattutto, è interessante notare che ancora una volta l’Italia muove in controtendenza rispetto alle medie europee. Se nel continente la quota di lavoratori poveri resta grosso modo stabile o in lieve diminuzione, da noi sale in misura significativa. È la riprova che nel nostro paese, ancor più che altrove, l’immiserimento del lavoro è diventato il propulsore principale dell’accumulazione. In questo scenario, non deve allora meravigliare l’ultimo dato Istat: la crescita dei working poor non soltanto si registra fra gli addetti alle pulizie o fra i precari del turismo, ma ormai dilaga pure nei gangli principali del sistema industriale, dentro la classe operaia.

Che sul piano dell’evidenza economica esista ormai una nuova «questione operaia» – nell’accezione ampia ma anche nel senso stretto del termine – è dunque avvalorato dai dati. Si tratta di rivendicarla nuovamente, come «questione politica».