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László Krasznahorkai, un profeta dell’apocalisse provvisto di codice postale

László Krasznahorkai, un profeta dell’apocalisse provvisto di codice postaleJános Máttis-Teutsch, «Paesaggio», 1917

Scrittori ungheresi Attraverso l’unica, lunghissima frase di cui si compone «Herscht 07769», László Krasznahorkai si addentra nella desolazione a est di Berlino, e traccia la fisionomia di un personaggio sotto il segno dell’alienazione: da Bompiani

Pubblicato più di un anno faEdizione del 12 febbraio 2023

Malinconico creatore di universi distopici inquietantemente simili al nostro, László Krasznahorkai sembra avere di recente affiancato alla intonazione di «maestro dell’Apocalisse» che gli era stata attribuita già nel 1999 da Susan Sontag una vocazione di moralista sempre più spiccata. Ne è prova quell’unica, lunghissima frase priva di punti fermi che è il suo ultimo romanzo, Herscht 07769, apparso nel 2021 e tradotto con la consueta maestria da Dora Varnai per Bompiani (pp. 494, € 25,00). Smessi ormai i panni del profeta che fin dall’esordio di Satantango aveva previsto l’imminente crollo del regime socialista nel suo paese d’origine, l’Ungheria, lo scrittore nato a Gyula nel 1954 sceglie ora di addentrarsi in quella «terra desolata» ingombra di rovine che si estende poco più a est di Berlino, a lungo sua nuova patria d’elezione. E lo fa anteponendo al suo testo una epigrafe dal sapore dantesco che lascia ben pochi dubbi sul carattere della vicenda che seguirà di lì a breve: «La speranza è un errore».

Tuttavia, ancor più che Dante, il nume tutelare di questo romanzo di straordinaria cupezza sembra essere Fedor Dostoevskij, almeno a giudicare dalla fisionomia del protagonista Florian Herscht, una specie di sosia del principe Myskin che della devastazione subentrata al fallimento dell’utopia socialista nella ex Ddr è figlio, anzi orfano. A partire dal bizzarro pseudonimo con cui il giovane «idiota» firma non meno stravaganti missive indirizzate a Angela Merkel, Krasznahorkai colloca la sua identità sotto il segno dell’alienazione: se Herscht è il cognome di un padre mai conosciuto, 07769 sta invece per il codice di avviamento postale di Kana, immaginario ma verosimile villaggio della Turingia, dove il protagonista conduce una vita di singolare squallore. Al pari dell’eroe dostoevskiano, del suo passato non si sa molto, se non che, dopo aver lasciato l’orfanotrofio in cui era cresciuto con un diploma di panettiere in mano, in virtù della sua eccezionale ingenuità, è caduto immediatamente nelle grinfie del Boss, un energumeno con una croce di ferro tatuata sul petto e una insospettabile passione per la musica di Bach, che ha preso a sfruttarlo come factotum nella propria impresa di pulizie.

Eppure, nella sua perfetta bontà, Florian è convinto di dovere proprio a lui tutte le sue «fortune» – ovvero un misero compenso in nero con cui integrare il sussidio di disoccupazione e una stanzetta in un ex casa dello studente socialista, ora abitata soltanto da immigrati, ovviamente invisi alla popolazione – e pertanto è più che disposto a chiudere un occhio sugli oscuri «piani» che, fra una bottiglia di birra comprata al Lidl e l’altra, gli adepti del Boss discutono furiosamente nel loro «covo». A preoccuparlo sono piuttosto i destini dell’umanità: dopo che un professore di fisica in pensione, il signor Köhler, l’ha introdotto al «meraviglioso mondo delle particelle elementari», Florian si è infatti convinto che l’universo sia destinato a essere inghiottito a breve dall’antimateria e a sparire nel nulla; proprio per questo inizia a sommergere di appelli disperati la cancelliera tedesca, affinché, forte non solo della sua carica istituzionale, ma anche della formazione scientifica ricevuta, renda il mondo edotto circa la minaccia imminente. Ed è sinceramente convinto che «Mutti» accetterà la sua proposta di raggiungerlo a Kana per elaborare insieme a lui i necessari provvedimenti, tant’è vero che, in una delle scene più spassose del romanzo, si piazza nella minuscola stazioncina del villaggio esibendo fiducioso un cartello con la scritta «Angela Merkel». Ovviamente la cancelliera non si farà mai vedere in quella desolata località della Turingia; in compenso, la fine del mondo, o una sua realistica approssimazione, comincerà a profilarsi gradualmente nelle sue strade «grazie» ai maneggi del benefattore neonazista di Florian.

Dopo i racconti trasognati sull’arte e la bellezza di Seiobo è discesa quaggiù, Krasznahorkai torna al suo tema prediletto, ossia l’attualità dell’Apocalisse, che, ben lungi dall’essere una prospettiva futura, accompagna – inavvertita e però presente – la nostra esistenza. Tuttavia, rispetto alle prove giovanili Satantango e Malinconia della resistenza, la tonalità tende qui decisamente al grottesco, tant’è vero che Herscht 07769 è stato equivocato come il romanzo «più divertente» dello scrittore ungherese. In realtà, il sorriso condiscendente con cui il lettore può accogliere sulle prime le disavventure dell’ «idiota» Florian lascia ben presto il posto a una sensazione di profondo disagio. Utilizzando virtuosisticamente la tecnica del discorso indiretto libero e migrando reiteratamente da un punto di vista all’altro, Krasznahorkai ci mostra dall’interno i contorti ragionamenti degli abitanti di Kana e le pulsioni meschine che alimentano i loro comportamenti; al tempo stesso, però, l’ottusa pervicacia con cui i personaggi – anche i più ripugnanti – si appellano alla nostra comprensione e strizzano l’occhio alla nostra solidarietà, finisce per instillare nel lettore il dubbio se non stia diventando malgré soi compartecipe del dramma ampiamente preventivabile che va prendendo forma sotto i suoi occhi. E che, ovviamente, non può essere fermato.

Benché imbottito di realia attinti alla situazione attuale nei Länder orientali della Germania, Herscht 07769 va ben al di là di qualsiasi riferimento socio-politico contingente. Se i «demoni» di Dostoevskij si sono reincarnati ora nei corpaccioni tatuati dei neo-nazisti della Turingia non è tanto per la mancanza di prospettive esistenziali a più di trent’anni dal crollo del Muro di Berlino e dall’assorbimento dell’Est nell’Ovest neoliberale, quanto piuttosto per una invincibile fragilità dell’essere umano nei confronti del male. Questa è la sconsolata conclusione cui sembra giungere Krasznahorkai, dimostrando con la parabola amara di Florian come l’attesa spasmodica di un Messia non serva che a spalancare le porte all’irruzione della violenza.

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