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L’assurda inappellabilità di quelle assoluzioni

foto togafoto LaPresse

Violenza sessuale Le Camere penali, nel proclamare un endorsement incondizionato e senza distinguo a questa proposta, chiudono gli occhi di fronte alle sempre più frequenti condanne del sistema giudiziario italiano da parte degli Organi di controllo sovranazionale, soprattutto per quanto riguarda processi per casi di violenza domestica e stupro

Pubblicato circa 2 anni faEdizione del 25 agosto 2022

La proposta di rendere inappellabili le sentenze di assoluzione non è nuova, era già stata tradotta in norma con la Legge Pecorella del 2006, dichiarata incostituzionale dalla Consulta nel 2007. È un tema controverso, per cui è prima di tutto utile abbandonare il linguaggio fazioso di chi ha in odio il controllo giudiziario, ritiene il processo una “persecuzione” e l’affermazione dei diritti una posa della sinistra. Sgombrato il campo dall’ideologia anti-legalitaria che sta alla base di tanta enfasi politica, si può vedere in quali termini la questione possa essere affrontata dal punto di vista dei princìpi costituzionali.

Il recente progetto di Riforma Lattanzi (superato dalla Riforma Cartabia-Bonafede) prevedeva l’inappellabilità del Pubblico ministero, ma lo faceva in un contesto di revisione complessiva delle impugnazioni, nel quale trovava spazio anche un filtro di ammissibilità (la cosiddetta “critica vincolata”) per l’appello dell’imputato avverso la sentenza di condanna. Ciò di cui si discute ora è invece l’inappellabilità tombale delle sole assoluzioni. Quello che si ricerca non è, chiaramente, una maggiore sostenibilità del sistema delle impugnazioni (sul quale ora incombe la tagliola dell’improcedibilità per superamento dei termini di durata) ma solo una vittoria “politica” contro la magistratura, con il risultato di distorcere gravemente gli equilibri del processo accusatorio in danno alle vittime.

Le Camere penali, nel proclamare un endorsement incondizionato e senza distinguo a questa proposta, chiudono gli occhi di fronte alle sempre più frequenti condanne del sistema giudiziario italiano da parte degli Organi di controllo sovranazionale (basti citare le due più recenti: Comitato Cedaw, Af contro Italia, 20 giugno 2022, e Corte Edu, Ms contro Italia, 7 luglio 2022), ricorrentemente costretti a constatare come i processi per violenza sessuale, domestica e di genere, vengano condotti sulla base di pregiudizi e stereotipi sessisti sulle donne e sulle persone non eterosessuali o non cisgenere. Intimamente connessi con il retaggio patriarcale, che portano ad assoluzioni (essendo tutti a favore dell’autore di violenza) spesso sbagliate e che solo il filtro della cecità ideologica può travisare come conquiste di civiltà giuridica: assoluzioni emesse perché la donna vittima della violenza sessuale era così poco attraente da non giustificare lo sforzo dello stupratore o perché aveva una condotta di vita disinibita, tanto da essersi dichiarata bisessuale sui social e da perdere così ogni credibilità come vittima, o ancora perché aveva lasciato socchiusa una porta, così “invitando a osare” chi l’ha poi violentata.

Sentenze che, quando impugnate dal Pubblico ministero (spesso proprio su sollecitazione della Parte civile), vengono non di rado annullate in Appello o in Cassazione, restituendo un minimo di dignità alla vittima e salvando il nostro diritto dalla completa regressione patriarcale e sessista.

Viene da chiedersi se le Camere penali abbiano consultato anche quella parte, importantissima, dell’avvocatura seriamente impegnata nella tutela delle donne vittime di violenza sessuale, domestica e di genere, come le avvocate dei centri e delle associazioni antiviolenza.

Il silenzio su questo aspetto rende evidente come il problema culturale, e di rappresentanza di genere, che affligge il sistema giustizia riguardi tanto la magistratura quanto l’avvocatura. Dieci sentenze di condanna di norma producono dieci appelli, dieci sentenze di assoluzione di norma non ne producono neanche uno; e quell’uno che viene fatto può servire a dire a una vittima di stupro che la violenza che ha subìto non è giustificata dal fatto che in fondo non sia poi una gran bella donna, e ai figli di una vittima di femminicidio che la loro mamma non se l’è cercata portando all’esasperazione il poveruomo che l’ha uccisa.

Come magistratura progressista non chiudiamo le porte al dialogo ma chiediamo che anche delle vittime e dei loro diritti si tenga conto, e che il tema delle garanzie non sia piegato a ragione della fuga dal processo e dell’impunità purché sia. La ragione del diritto, anche (se non soprattutto) del diritto penale, sta sempre di più nella responsabilità di proteggere dalla violenza fondata sull’odio: misogino, omo-transfobico, etnico, religioso, ageista, abilista e di qualsiasi altra pseudo-giustificazione di cui si rivesta l’uso della forza in senso oppressivo.

*Magistrato, esecutivo di Magistratura democratica

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