Il 17 mattina davanti al padiglione chiuso di Israele, ai Giardini della Biennale, si è svolta una manifestazione improvvisata pro Palestina e per il cessate il fuoco di persone invitate alla Biennale, provenienti da tutto il mondo, che hanno anche lanciato volantini, spostandosi fra i “paesi” di Israele, Stati uniti e Germania.

 

Davanti al padiglione di Israele, ai Giardini della Biennale, stazionano i militari. Presidiano un luogo chiuso perché l’artista Ruth Patir insieme ai curatori della mostra Motherland (il cui titolo aveva già suscitato molte polemiche stridendo con la cruda realtà che vede i bambini a Gaza morire sotto le bombe) hanno deciso di fare marcia indietro e, contrariamente a quanto avevano affermato finora (la volontà di andare avanti con il loro progetto perché non rappresentavano Netanyahu), hanno sbarrato l’entrata.

SULL’ESTERNO, un avviso semplice e potente, divenuto il protagonista indiscusso dei media di mezzo mondo sbarcati in Laguna per l’opening: «Il padiglione resterà chiuso finché non ci sarà un cessate il fuoco e tutti gli ostaggi saranno rilasciati». Hanno anche affermato che il governo israeliano – fra i finanziatori di una parte del padiglione nazionale – non era al corrente del loro gesto di protesta.

Il suo malessere e il desiderio di mandare un messaggio forte, Ruth Patir l’ha affidato anche ai social: «Sento che il tempo dell’arte è perduto e ho bisogno di credere che tornerà. Siamo diventati una notizia. Odio il boicottaggio culturale, sono anche una educatrice, ma dal momento che non credo ci siano risposte corrette e io ho solo questo spazio a disposizione preferisco far vibrare la mia voce per coloro che sostengo, per il cessate il fuoco e riportare le persone a casa, ora. Non ce la facciamo più».

IL PADIGLIONE DI ISRAELE era già stato investito dalle polemiche qualche mese fa: associazioni pro-Palestina e un gran numero di intellettuali «trasversali» avevano lanciato un appello per il suo boicottaggio ed esclusione («Niente padiglione del genocidio alla Biennale di Venezia» riportava il documento, «l’arte non può trascendere la realtà. No death in Venice, no business as usual»), ma l’istituzione aveva risposto che la partecipazione di qualsiasi paese riconosciuto dall’Italia sarebbe rimasta una libera scelta.

PER ADRIANO PEDROSA, curatore della mostra «identitaria» di questa edizione e alfiere del sud globale del mondo con il suo slogan-guida Stranieri ovunque, la decisione dell’artista e del suo team è coraggiosa e saggia. «È davvero arduo presentare un’opera in questo particolare contesto» (i padiglioni sono comunque indipendenti dalla rassegna principale). Pedrosa ha anche fatto sapere che Khaled Jarrar, artista palestinese residente a New York e invitato a esporre, non è riuscito ad arrivare a causa delle peripezie per ottenere il visto.

Israele dunque chiude fino al cessate il fuoco e alla liberazione degli ostaggi, la Russia invece non ha mai riaperto né chiesto di essere in Biennale. All’indomani dell’invasione dell’Ucraina e del deflagrare della guerra furono, anche lì, gli artisti e il curatore a rifiutarsi di presentare il loro lavoro. Quest’anno, la «casa russa» ospita la Bolivia, in omaggio a quel Foreigners everywhere che costella culturalmente e politicamente la manifestazione artistica.

E l’Ucraina? Ci sarà con un’architettura che si fa narrazione di conflitti e esodi di popoli e con le voci (e le onomatopee belliche) dei civili, testimoni di guerra, raccolte nel padiglione della Polonia.