Quando si parla di alluvione di Firenze, immediatamente tutti pensiamo al 1966, perché la memoria è relativamente recente, e in tanti hanno vissuto la tragedia direttamente o almeno ne hanno sentito parlare attraverso testimonianze, fotografie, video. Per quanto ne sappiamo, l’acqua nel 1966 arrivò ai livelli più alti mai raggiunti: lo sappiamo perché le alluvioni del passato avevano lasciato targhe, spesso visibili ancora oggi, a segnalare l’altezza delle acque nei punti più critici. Tuttavia, un’alluvione precedente di secoli ha il triste record delle maggiori distruzioni e può offrirci alcuni spunti di riflessione sulla percezione delle catastrofi: parliamo dell’esondazione dell’Arno del 1333 che, al pari di quella del 1966, avvenne il 4 novembre.

A DIRE IL VERO, la maggior parte delle alluvioni dell’Arno si concentrano nel periodo autunnale, anche se non sono mancate eccezioni importanti: l’alluvione del 1547 avvenne il 13 agosto, mentre dieci anni dopo, il 15 settembre, vi fu una delle più catastrofiche esondazioni della storia della città. Le alluvioni a Firenze sono state registrate spesso da numerose fonti; prima di quella del 1333, se ne ricordano altre due: nel 1177, in data incerta, e nel 1269, il 1° ottobre.
Tutte le catastrofi naturali, anche quelle legate all’incuria o all’incapacità umana di prevenirle, offrono spunti per riflettere sulla percezione degli eventi e sul significato che viene loro attribuito. Non soltanto l’alluvione del 1333 non fa eccezione alla regola, ma si potrebbe dire che, visti gli anni in cui ebbe luogo, più di altri avvenimenti simili ben si presta a una lettura di questo genere. Intanto, l’inizio del Trecento non era stato un periodo felice. I secoli XI-XIII avevano registrato una tendenza positiva su diversi piani: la popolazione europea aveva conosciuto un incremento sostanziale, erano state fondate nuove città e si erano allargate le cinte murarie di quelle già esistenti, i traffici avevano conosciuto uno straordinario sviluppo quantitativo e qualitativo. Oggi, si tende a considerare che in questo generale processo positivo e progressivo, un certo ruolo sia stato rivestito dal miglioramento climatico. Dai primi del Trecento, però, qualcosa era cambiato. Il fatto che la crisi demografica di quel secolo, che noi associamo alla peste, si sia manifestata con la fame ben prima che attraverso l’epidemia, ha indotto a ritenere che la sua causa stia prima di tutto in un rapporto sfavorevole tra l’aumento della popolazione e quello della produzione. Lunghe annate caratterizzate da piogge e da umidità si susseguirono sull’Europa causando non solo l’infierire di malattie da raffreddamento che colpivano in modo grave soprattutto i bambini piccoli e le persone anziane, ma anche una serie di cattivi raccolti, con conseguenti carestie e lievitazione dei prezzi, evidenti soprattutto fra 1315-1317.

FIRENZE viveva dal canto suo una situazione politica non facile. Nel 1301 la discesa di Carlo di Valois, fratello del re di Francia Luigi IX e alleato di papa Bonifacio VIII, aveva portato all’esilio dei Guelfi «bianchi», incluso Dante.
La città era governata da un’oligarchia di grandi imprenditori che si riconosceva politicamente nella fazione guelfa detta “nera”, vale a dire più intransigente, ma che era anzitutto espressione delle Arti più potenti. La stabilità della repubblica era sorvegliata da un’organizzazione in mano ad alcune famiglie del «popolo grasso», che includeva tuttavia anche casati della vecchia aristocrazia magnatizia. Come in altre città, i primi segni della crisi che stava arrivando si mostrarono ben presto, anzitutto sotto forma di un ristagno nella produzione e nello smercio di certi prodotti.
Negli anni Quaranta, una serie di grossi prestiti concessi dalle banche fiorentine (delle famiglie Acciaioli, Bardi, Peruzzi) ai sovrani europei, e mai restituiti, provocò un susseguirsi di fallimenti bancari, a loro volta destinati a tradursi in gravi dissesti per le medie e piccole imprese mercantili che a quelle grandi banche avevano affidato la gestione dei loro capitali. Fallimenti a catena, svendite di beni mobili, nuovi concentramenti di ricchezza e generale impoverimento furono gli esiti di un ristagno economico-finanziario che era profondamente collegato alla crisi generale. Una parte del ceto dirigente sarebbe stata spazzata via.

È quest’aria di crisi che si respira nel racconto dell’esondazione dell’Arno. Certo, i cronisti che assistettero all’evento nel 1333 non potevano conoscere gli eventi futuri, ma bisogna tener presente che molte scritture appartengono agli anni successivi rispetto all’alluvione, e dunque risentono di un’atmosfera di malessere ormai galoppante. Prendiamo una fra le più celebri, quella di Giovanni Villani. Il cronista parla delle grandi piogge che portarono disastri fra il Casentino, la piana d’Arezzo e il Valdarno; l’Arno in piena travolgeva tutto e, incontrandosi con la Sieve, pure gonfia, giunse a Firenze. Villani imputa ai fiorentini l’aver costruito «molte pescaie fatte infra la città per le molina, onde l’Arno per le dette pescaie era alzato oltre l’antico letto di più di braccia VII». A sera, l’acqua aveva rotto gli argini presso il corso dei Tintori, inondando la zona di Santa Croce, poi quelle di San Pier Scheraggio, di San Pier Maggiore e fino alla porta del Duomo. Nella chiesa di Santa Reparata l’acqua arrivò a bagnare le volte. Crollarono, in ordine, il ponte alla Carraia, quello di Santa Trinita, infine il Ponte Vecchio, che era stato ricostruito poco dopo l’alluvione del 1177. Rimase in piedi solo il ponte di Rubaconte.

INSIEME con il Ponte Vecchio, fu travolta e persa anche una celebre statua di Marte della quale aveva parlato già Dante: la «pietra scema (ossia mutila) che guarda ‘l ponte». Come attesta lo stesso Villani, era diffusa l’opinione che un tempio dedicato a Marte sorgesse nell’area dell’attuale battistero di san Giovanni, edificato all’epoca della prima cristianizzazione con lo scopo di esaugurare l’antico culto. Tuttavia, continua il Villani, l’idolo di Marte non era stato distrutto, ma collocato in una torre lungo l’Arno sino al giorno in cui, nel corso di una scorreria disastrosa per la città, gli Unni guidati da Attila l’avevano gettata nelle acque del fiume.
Recuperata, la statua sarebbe stata ricollocata nientemeno che da Carlo Magno, impegnato nella rifondazione di Firenze, presso il Ponte Vecchio. Proprio qui, secondo la tradizione storica della città, sarebbe stato ucciso durante la «mala Pasqua» del 1216 Buondelmonte de’ Buondelmonti, nell’ambito di una faida fra opposte consorterie, dando origine alla lunga guerra fra Guelfi e Ghibellini, apportatrice di tanti lutti e distruzioni. I cittadini ne dettero la colpa all’influsso malefico del loro antico patrono, offeso per il ripudio in favore del culto del Battista.

LA STATUA DI MARTE rimase lì appunto sino all’alluvione del 1333, che ne decretò la definitiva scomparsa. In fondo al racconto dell’alluvione, Villani non può fare a meno di chiedersi se «non fosse iudicio di Dio per le nostre peccata», un’opinione condivisa da molti e ricorrente in occasione delle catastrofi naturali, e si lascia andare a lunghe considerazioni sulle congiunzioni astrologiche.
Come detto, la percezione dell’evento si caricava agli occhi del cronista, e di molti, del peso delle vicende coeve e anche successive, se consideriamo l’asincronia della scrittura, assumendo una portata che andava anche al di là della drammaticità reale, e incontestabile, dell’evento. L’esondazione dell’Arno e la perdita della statua apotropaica divenivano così, nella memoria collettiva, un’avvisaglia profetica di tragedie ben peggiori che aleggiavano ormai sulla città.