«Portiamo in giro il nostro cuore nel posto sbagliato: l’ho sempre pensato, trovandomi sul fiume» sentiamo dire a un certo punto alla protagonista senza nome del romanzo Sul fiume, della scrittrice e traduttrice tedesca Esther Kinsky (Il Saggiatore, 2021). Una donna dal vissuto imbastito da un incessante vagabondare dentro e oltre i confini dell’Europa di cui non ci è dato sapere le ragioni, che dopo molti anni a Londra e prima di lasciare l’Inghilterra per dirigersi a Est, si trasferisce in un modesto appartamento vicino al River Lea, corso d’acqua custodito dai cigni e popolato da case galleggianti che attraversa la città alla sua periferia orientale prima di sfociare nel Tamigi.

Impossibile non pensare ai versi di Anne Sexton – «la donna fa il bagno al suo cuore» scriveva in uno dei componimenti del Libro della follia, «le è stato strappato e siccome è bruciato come atto estremo lo risciacqua nel fiume. Questo è il mercato della morte». Chissà se Sexton aveva in mente lo spirito della donna che piange sul fiume, la Llorona così presente nei canti e nei sogni degli abitanti del sud ovest americano. L’atto estremo della protagonista di Kinsky ha i contorni di una silenziosa sottrazione più che di un lamento, «come quando si ritaglia un pezzetto da una foto di gruppo o da un paesaggio», ci spiega all’inizio, «incerta sulla destinazione di quel ritaglio, vivevo in modo precario in un posto dove non conoscevo nessuno, dove i nomi delle strade, gli scorci, gli odori e le facce mi erano ignoti».

SI È STRANIERI DOVUNQUE, sembra avvertirci, il mercato della morte attinge al trafficare con gli effetti di una perpetua ripartenza che mai trova nome. La seguiamo destreggiarsi tra gli scatoloni da cui saltuariamente tira fuori libri e mappe senza la minima pretesa di sistemare niente, con la stessa provvisorietà che ne ha definito l’attitudine a un’esistenza di passaggio. Oltre i vetri impolverati della sua finestra un croato dalle labbra sottili gestisce un negozio di beneficenza e colleziona denti d’oro, una ragazza dal volto consumato dal vento si aggira nel cimitero di Abney Park con un vecchio stenoscopio, una famiglia di ebrei osservanti con la kippah è costantemente affaccendata in riti antichi e consolidate tradizioni.

La donna che parla potrebbe avere trent’anni o forse cinquanta, delle sue scarpe e dei vestiti che indossa non sappiamo niente, la vediamo percorrere a piedi i viali di case a schiera fino agli argini del fiume che attraversa Springfield Park, una macchina fotografica al seguito per trattenere «cose del tutto incompatibili» con quella che è stata fino a prima la sua vita nella «capitale degli artisti del camuffamento», «facendo ogni volta un tratto in più», tenendosi «attaccata al fiume come ci si aggrappa a una fune per mantenere l’equilibrio su un ponticello molto stretto».

Instancabile, attraversa sottopassi e ferrovie sopraelevate, s’inoltra nelle paludi di una città diversa, che si interrompe all’improvviso facendosi campagna industriale, acquitrino, covo di cicatrici dove a se stessi non si può mentire. Hackney Marsh, Hackney Wich, Stratford Marsh, la donna dissemina i suoi riferimenti, molliche di pane che fanno «tutt’uno con le canne e il fango», le piante acquatiche e i rottami, e a cui sarà impossibile tornare nonostante i suoi costanti avanti e indietro. Un’istantanea dopo l’altra, assistiamo al prender forma di un reticolo acquatico dei sentimenti che inizia dal River Lea e attraversa tutti i fiumi che l’hanno vista diventare una persona – il Reno, il St Lawrence, l’Oder, il Neretva, il Tisza, l’Hooghly, il Gange.

È così che veniamo a sapere quel poco che conta del suo passato, un padre taciturno viaggiatore, appassionato di fotografia, un figlio molto piccolo di cui dopo qualche pagina si perde ogni traccia, «il sottile paesaggio regolare e apparentemente leggibile» che da bambina sul fiume si esercitava a decifrare per contrastarne «la volubile indipendenza», il suo lavoro di «convogliare parole». Ma è nella postura ripariale del suo sguardo, nel lungo addio che riserva a una città evidentemente molto amata, che ci sembrerà di riconoscerla davvero. Alimentata da una sorgente ininterrotta, la scrittura di Kinsky ha l’andatura terracquea del fiume che scompare e riappare davanti agli occhi di chi sempre lo cerca come orizzonte di riferimento ma mai dandolo per certo, mai per definitivo.

LA CATENA DI EMERSIONI che questo incedere comporta non è data solo dai ricordi recuperati in trasparenza, dai frammenti inanimati che si fanno nitidi sui rettangoli di carta fotografica che la donna conserva con cura, ma anche e soprattutto dalle presenze che lungo il sentiero le vengono incontro. Persone dall’opacità luminescente che si materializzano dal niente, storie sempre già iniziate e ancora da portare a compimento che funzionano come serrature senza più la chiave da cui, se si guarda bene, si può vedere il mare.

Kinsky definisce senza teorizzarlo il margine come principio fondante del racconto e quindi come presupposto dell’incontro: solo camminando in riva al fiume, tra scintillanti fuochi d’artificio in lontananza e decadenti Luna Park, solo perdendo periodicamente di vista il suo corso dietro grossi zuccherifici e vecchie fabbriche di spazzole, sotto un «groviglio vibrante» di superstrade e gallerie, tra bancarelle e piste di pattinaggio sul ghiaccio – come il filo che sfugge alla cruna dell’ago al minimo segno di disattenzione – sarà possibile imbattersi in eccentrici re dei corvi neri e preparatissimi collezionisti di mattoni, ex acrobati tatuati rivestiti di lustrini e signore delle roulotte pronte a offrire un te preparato con l’acqua sporca, un pezzo di cioccolata estratto direttamente dalla tasca della gonna. È allo stesso modo che si rinsalda quella estranea intimità che di fatto è la lettura. Fuori, intanto, sarà già notte e di nuovo ancora sarà mattina, e a essere cambiato non sarà solo il paesaggio, ma la lingua. Le parole si scontreranno come «piccoli pesci dai denti aguzzi e le bocche contratte» in un estuary english – «il dialetto della foce: vocali aperte, sillabe smozzicate», frasi che si confondono le une con le altre, che si fa fatica ad ascoltare.

SI POTREBBE RICONDURRE l’opera di Kinsky alla reportistica geografica o naturalistica, invece il suo è un trattato alchemico sul senso dello spaesamento necessario per restare al mondo, uno stradario che conduce all’essenza selvatica della specie umana come condizione, per cui è sempre «nella speranza di trovare la serenità di chi risiede stabilmente in un posto» che ci si mette a camminare lungo il fiume. Senza una meta precisa, scorrendo le dita sui mattoni delle case che ne ricalcano gli argini.

Qualcosa di completamente differente dall’impresa eccezionale che, per distrarsi dalla fine dolorosa di un amore, una mattina di giugno Olivia Laing decide di intraprendere, percorrendo dall’inizio alla fine il fiume Ouse, lo stesso in cui annegò Virginia Woolf. Una traversata del Sussex composta di tappe, pernottamenti prenotati in anticipo e obiettivi tracciati a matita su mappe di carta che Laing racconta nel libro To the river, portato in Italia da Il Saggiatore nel 2020 con il titolo Gita al fiume. Conversazione immaginaria con la scrittrice scomparsa suicida nelle stesse acque e con la sua depressione, e allo stesso tempo viaggio coltissimo, letterario e scientifico, dove la storia dell’Inghilterra fa da sponda alle origini della vita sul pianeta.

Nel romanzo che Kinsky dedica «alla bambina cieca» non c’è traccia di letture pregresse, mancano le nozioni enciclopediche disseminate tra le sterpaglie per tenere a bada la mente come un serpente pericoloso, non esistono cottage o casette di marzapane in cui andarsi a ristorare.

L’esistenza è messa a nudo sotto la luce lattiginosa del tempo che per un processo di emulsione emozionale gradualmente si fa scura. L’intuizione letteraria proviene direttamente dalla vita, dalla coscienza della nostra impermanenza. Come quando ci si trova immersi nel paesaggio che dal finestrino di un treno ci era sembrato irreale. Come se adesso i passeggeri del treno che tante volte ci ha spinti in avanti potessero addirittura vederci, un attimo prima di lasciarci andare.