Cambiano, immemori, i tempi. Sotto re, consoli e cesari, l’Almone era sacro. Almo, come la fertilità; come l’Alma Venus cantata da Lucrezio, voluttà degli uomini e degli dei. Salvatore, perché sulle sue sponde il fato aveva sfiancato Annibale, tanto che ogni primavera era battezzata nelle sue acque l’icona di Cibele. Almone il santo: perché Pietro, proprio dove il cartaginese fallì, sfuggì al topos del rifiuto dell’eroe per accettare il martirio.

Oggi l’Almone non solo è un rivo strozzato che gorgoglia, causa siccità, ma anche una fogna riempita di veleno quotidiano. Il 21 aprile, giorno del Natale di Roma, l’Arpa Lazio ha finalmente comunicato i dati delle analisi, effettuate dopo costanti e tenaci sollecitazioni dei cittadini. I quattro macrodescrittori – ossigeno disciolto, azoto ammoniacale, azoto nitrico e fosforo – segnano rosso. Il livello di qualità, secondo la classificazione LIMeco, è il quinto: il peggiore. Quantomeno, chiedendone il monitoraggio, la Regione sembrerebbe considerare l’Almone un fiume e non una cloaca. È poco, ma è qualcosa.

LA VALLE DELLA CAFFARELLA, estesa per centotrenta ettari, è un diamante grezzo incastonato nella pancia di una capitale cementificata senza pietà, nonostante le statistiche le riconoscano una quantità di verde urbano inferiore, in Europa, soltanto a quelle di Parigi e Amsterdam. «Il problema resta nella possibilità per la comunità pubblica di viverlo», sintetizza Roberto Federici, professore di scienze di un liceo romano che sta dedicando la pensione alla tutela dell’area. Il suo sguardo punta al di là della staccionata di un ponticello attraversato da ciclisti, anziani con il cane, militari della vicina Cecchignola.

La voce è cadenzata dal rumore della pompa che pesca dall’Almone per innaffiare gli alberi da frutto piantati dall’Ente Parco. Il professore indica, a pochi passi, il casale rinascimentale della Vaccareccia, dove stabulano le mille pecore che pascolano lungo le acque, utilizzate per produrre ricotta e pecorino. «Se si vuole capire cosa fosse la Campagna romana, bisogna venire qui», dice.

E per riuscirci giova tenere i cinque sensi all’erta e camminare, perché poco oltre passa la via Appia, la linea retta del classicismo che quasi emergendo dal suo subconscio dà respiro alla città puntando a Est, connettendola idealmente alle dimensioni sprovincializzanti della geografia e della storia. In nessun altro luogo si può apprezzare la portata rivoluzionaria del grande parco archeologico urbano di cui scriveva Antonio Cederna. È triste più che altrove, da questo ponticello, la rimozione di quel progetto: un polmone di culture che dai Fori conduca alle pendici dei Castelli, seguendo puntualmente il corso dell’Almone.

IL FIUME È LUNGO 21 CHILOMETRI: sorge dal Monte Cavo, a circa 400 metri di quota nel territorio di Rocca di Papa, e attraversa Marino, Ciampino e, a Roma, Morena e Capannelle, Cinecittà e il Quadraro. In origine si gettava nel Tevere all’altezza del Gazometro: ora non più, perché viene raccolto dal depuratore Roma Sud. Il primo a eternarlo fu Virgilio, nel settimo libro dell’Eneide. Almone, figlio del pastore che gestisce le stalle reali di Latino, addomestica un cervo, che però viene ucciso da Ascanio. Almone guida allora per vendetta i pastori contro i troiani, ma è trafitto al collo. Come leggiamo nella traduzione di Rosa Calzecchi Onesti, la freccia «dell’umida voce chiuse col sangue la via». E liquido divenne così il ragazzo, trasformatosi in fiume e divinizzato e pronto a proteggere il futuro.

E infatti, sulle sue rive rigogliose, un giorno Rea Silvia sarebbe andata per attingere acqua. Lì incontrò Marte. Il resto è leggenda. Sette furono i re, ma poi Tarquinio il Superbo fu cacciato e la neonata Repubblica si salvò con la battaglia del lago Regillo che, ormai scomparso, doveva trovarsi alle pendici dei Colli Albani, nella valle dell’Almone. Perciò, a partire dal 499 a. C. e per tutto il periodo arcaico, ogni 15 luglio venivano organizzate alla Caffarella sfilate di cavalieri in onore di Marte.

IL MONDO FECE IRRUZIONE in quest’Arcadia nel solito stile. Con la violenza. Incombeva la Seconda guerra punica e Annibale pareva invincibile. Già era successo altre volte: nel fondo della tragedia, conveniva affidarsi alle profezie dei Libri Sibillini. «Dalle consultazioni risultò che bisognava far venire da Pessinunte il monolito nero della Magna Mater», racconta Simone Quilici, direttore del Parco archeologico dell’Appia Antica. «Così, per accoglierla, fu costruito un tempio sul Palatino e fu organizzato un colossale trasloco. Una nave seppe trasportare la pietra, ma giunta alla confluenza tra Almone e Tevere si incagliò. Fu necessario un rito di purificazione per farla ripartire».

Il corso e lo stato attuale dell’Almone

Un rito che divenne tradizione ogni 27 marzo e fu celebrato fino al 389 d. C., quando il cristianesimo non volle più tollerarlo. Si tratta della Lavatio matris deum e consisteva in una processione che dal Palatino conduceva l’icona fino alla confluenza, dove veniva immersa insieme alle suppellettili per il culto nelle acque dell’Almone.

In ogni caso Annibale risalì l’Appia da Capua. Ma si fermò sul più bello, dove Roma da sempre attende al varco l’Oriente, dove solo San Pietro non avrebbe ceduto. Lo ricorda la topografia con il tempio di Rediculus, il dio che permetteva di tornare vivi – redire – a patto di capire quando fosse il caso di lasciar perdere. E Annibale, nel 211 a. C., nella Caffarella pare vide cotanto dio scagliargli contro eventi climatici soprannaturali. Girò le spalle. Nessuno a fargli coraggio, a gridargli dell’alto: Quo vadis?

I QUIRITI, oltre a servirsi dell’Almone per coltivare ortaggi e frutta, ne apprezzavano il sapore acidulo dell’acqua, leggermente frizzante per la presenza di biossido di carbonio di origine vulcanica. E guarda caso Erode Attico, che di scenografie se ne intendeva – lo palesa il suo Odeion sull’Acropoli di Atene – trasformò in un’enorme tenuta agricola il fondo ereditato dalla moglie Anna Regilla. Di questo, resta il ninfeo di Egeria: la ninfa amante di Numa Pompilio, che alla sua morte si sciolse in lacrime divenendo fonte.

Nel fiume resiste qualche spinarello; ci sono rospi e biacchi; si intravedono aironi cinerini e falchi pellegrini. Si moltiplicano però specie aliene come parrocchetti, conigli, tartarughe dalle orecchie rosse venute dal Mississippi e gamberi dalla Louisiana. Mario Tozzi, presidente del parco regionale, spera presto di poter fare in tutta sicurezza il bagno nel fiume con Federici. Glielo ha promesso. Ma il professore sembra meno ottimista mentre pota un melo nella Casa del Parco, gestita da un comitato di cittadini che si finanzia con il 5 per 1000. «Certo presso l’ingresso di Largo Tacchi Venturi non c’è più la discarica», si consola pensando agli anni recenti in cui vi si accumulavano mattonelle e scaldabagni e in cui lavoratori morivano nelle cinque fungaie abusive della Caffarella. «E abbiamo questa casa dove organizzare attività ricreative e di educazione ambientale per persone di ogni età. Ma nemmeno la Regione Lazio tratta ancora l’Almone per quello che è: un fiume».