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L’Argentina sempre sotto il tacco del Fondo

Nuova Finanza Pubblica

Nuova Finanza pubblica La rubrica settimanale di politica economica. A cura di autori vari

Pubblicato più di un anno faEdizione del 8 luglio 2023

Nei paesi occidentali le ultime politiche monetarie sono molto controverse, visto l’impatto che esse recano su crescita e occupazione: l’innalzamento del tasso di interesse richiesto per la vendita di riserve bancarie – quella particolare valuta usata, fra l’altro, per i flussi di pagamenti da banca a banca – deprime il credito e “raffredda” l’economia. Singolare eufemismo per non dire che le banche centrali ci stanno spingendo a viva forza verso la recessione. Molto meno discusse sono le conseguenze in paesi più poveri e molto indebitati, già duramente provati dalla caduta verticale dei flussi commerciali nel 2020-21 per via del Covid. Come l’Argentina.

In questi giorni è stato reso noto che Buenos Aires, fortemente indebitato con il Fondo Monetario Internazionale non ha sufficienti riserve per pagare la sua rata, e per farlo userà i Diritti Speciali di Prelievo e le riserve in yuan. I primi sono una unità di conto che consente di attingere alle riserve di un certo numero di paesi associati al FMI, una sorta di cambiali sostenute da un insieme di più valute. Lo yuan è la moneta cinese. Cosa ci dice tutto ciò?

In primo luogo che le ricadute delle politiche monetarie restrittive (in specie il rialzo dei tassi della FED) si abbattono su un paese già in grande crisi, con una inflazione galoppante e nuovamente dollarizzato. La catastrofica presidenza di Macrì, eletto nel 2015, mentre l’economia reale crollava fra il 2016-17 aveva trovato finanziatori occidentali ben disposti ad accollarsi il rischio. L’anno successivo la politica lassista sui vincoli di capitali ne permetteva una ingente fuga, mentre diventava frenetica la ricerca di nuovi prestiti solo funzionali alla restituzione dei vecchi debiti.

Il paese si avviava verso la recessione, con il crollo di pil e occupazione e il prosciugamento delle riserve estere (che, ricordiamo, si ottengono con un saldo commerciale positivo verso il resto del mondo o con prestiti del FMI). Macrì non ha trovato di meglio che ottenere infatti un nuovo prestito dal Fmi di ben 57 miliardi di $, al prezzo delle solite politiche di austerità. Così il presidente neoliberista è stato sconfitto alle elezioni, hanno riguadagnato potere i neoperonisti con Fernandez.

Con in mano un paese nuovamente iperindebitato e sostanzialmente con una doppia valuta: il peso per le transazioni quotidiane e il dollaro per il mondo della finanza, incluso quello dello Stato: 2/3 del debito pubblico è in valuta estera, il 53% in dollari. E se tale ammontare era già cresciuto molto (rapporto debito pil dal 44% del 2014 arriva a oltre 88% nel 2019), l’innalzamento che il dollaro riceve dagli alti tassi decisi dalla FED rende la restituzione molto più onerosa, così come era avvenuto nella crisi del debito degli anni Ottanta per via del folle rialzo operato dalla FED di Volcker. Se l’affanno della restituzione del debito in dollari rivalutati testimonia il perdurante dominio nordamericano, la modalità della restituzione ne suggeriscono invece lo smottamento.

Le autorità argentine hanno tanta valuta cinese perché a gennaio scorso hanno formalizzato con Pechino un accordo di swap valutario – un prestito di riserve estere nella valuta del gigante asiatico. L’ erosione del dominio del biglietto verde è palpabile dopo lo scoppio della guerra in Ucraina, ove le sanzioni verso la Russia hanno spinto molti paesi a costruire dei sistemi di pagamento indipendenti dagli Usa; persino alleati di vecchia data dati per fedelissimi come Israele o lArabia Saudita hanno aperto a pagamenti in valuta cinese, con il gigante asiatico indiano e molti paesi che non si riconoscono nella vecchia egemonia Usa, ed infatti stanno facendo la fila per entrare nei BRICS, un gruppo alternativo al vecchio G7 – il quale peraltro anziché informale direttorio plurale delle economie più forti assomiglia sempre più ad un Usa fan club, ad essi ciecamente ubbidiente.

La stessa Argentina ha iniziato a pensare con il Brasile ad una valuta alternativa che sostituisca il dollaro in America Latina. Sono trasformazioni lunghe; intanto il paese latinoamericano è ancora sotto il tacco di Washington e prigioniero dell’ennesimo accordo-capestro con FMI del 2022, firmato dal governo Fernandez e ferocemente criticato dalle forze sociali del paese.

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