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L’Argentina piange El Trinche, il più grande di tutti secondo Maradona

L’Argentina piange El Trinche, il più grande di tutti secondo MaradonaTomas Felipe Carlovich, detto El Trinche, davanti a un "suo" murales a Rosario

Futebol Ucciso a 74 anni per rubargli la bici. Una storia, la sua, che sembra uscire fuori da un romanzo di Osvaldo Soriano

Pubblicato più di 4 anni faEdizione del 10 maggio 2020

Una spinta per rubargli la bici. Un pugno, la testa che batte sul marciapiede. Dopo un giorno di coma, l’unico da incosciente dei suoi 74 anni di vita, è morto in un ospedale di Rosario, in Argentina, Tomas Felipe Carlovich, per tutti e per sempre “El Trinche”. Piange un Paese innamorato del futebol. Perché quello che se n’è andato due giorni fa è stato, per dirla con le parole del commissario tecnico della nazionale campione del mondo del ‘78, Cesar Menotti: «Il più grande giocatore che non avete mai visto». Un Salinger della pelota.

UN’IPERBOLE? FORSE. Ma quando più di un quarto di secolo fa Diego Armando Maradona, arrivando a Rosario per giocare nei Newell’s Old Boys si sentì dire che era un onore avere in città il più grande di tutti, Diego rispose: «Vi sbagliate, lo avete avuto già, è stato El Trinche».

Soprannome misterioso, assegnato – regola fissa per ognuno in Argentina – dai ragazzini di strada che giocavano a pallone sulle strade di Rosario. Città unica. Come i suoi illustri nativi, Che Guevara, Fontana, Messi. Unica, come il suo dialetto. O il suo gioco del calcio. Il famoso futebol rosarino. Altra roba: ritmi lenti, tunnel, pallonetti sopra la testa dell’avversario, il famoso «sombrero».

EL TRINCHE NON AVEVA RIVALI. Ma la sua storia – letteralmente rubata ad un romanzo di Osvaldo Soriano – va oltre. Una squadra del cuore, il Cordoba Central, serie B argentina degli anni ‘70 dove era sbarcato perché il padre croato dopo la crisi del ‘29 cercò fortuna in Argentina. E occasioni perdute, sempre con ferrea volontà, per giocare a Baires, in Europa, in nazionale. Meglio il barrio Belgrano, quello della sua amatissima Rosario.

Ma come ha fatto un «volante» – il regista difensivo – del campionato di B argentino a diventare famoso in tutto il mondo? Perché l’amore per il suo calcio è stato – o meglio è, El Trinche è immortale – un postulato: non va dimostrato. Allo stadio Gabino Rosa – dove c’è un murale celebrativo – si pagava il biglietto per la partita con lo sconto se El Trinche non giocava. Jorge Valdano, l’intellettuale della seleccion albiceleste campione del mondo nell’86 ha detto: «El Trinche è stato l’espressione di un calcio romantico e divertente che ormai non esiste più».

COSÌ NEL TEMPO LA LEGGENDA si è rincorsa sui viali delle sconfinate memorie. Ubriacone? El Trinche era praticamente astemio. Grande pescatore di Dorados? A male pena qualche trota sulle sponde del Paranà. Ma in mezzo storie vere. Come quella del 17 aprile 1974. A Rosario si gioca una amichevole tra una selezione di giocatori della città e la nazionale argentina che deve andare ai mondiali in Germania.

Cinque del Rosario Central, la squadra di Che Guevara, e cinque del Newells Old Boys, quella dove sgambettò poco più che infante Leo Messi. Più uno, El Trinche. Primo tempo 3 a 0 per i rosarini. Col ct argentino Cap che dice agli avversari: togliete dal campo quel «5» (il numero di maglia del nostro), ci sta umiliando. Ma niente. Restò li. In B, a Rosario.

NEMMENO LE LETTERE accorate di Pelè sbarcato ai Cosmos di New York a caccia di talenti sul viale del tramonto per il sogno del soccer Made in Usa, lo convinsero. Una vita tranquilla. Amici, bar e la bici. Nell’ultima intervista, dieci giorni fa disse: «Sono felice così, con la mia gente che mi vede passare in bici da un barrio all’altro e mi saluta e mi ringrazia perché ricorda».

Tutti, tranne quel balordo che di notte ha visto solo un viejo e una bici da rubare. Fiori e lumini sotto il murale dello stadio Gabino Rosa. E una scritta tipicamente rosarina: Hasta Siempre Trinche. Immortale lo eri già.

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