Sono passate tre settimane, lo spoglio delle schede in Sardegna non è ancora ufficialmente concluso eppure è già sparito l’ottimismo che la vittoria un po’ imprevista e un po’ fortunata in quella regione aveva sparso sulle opposizioni.

L’umore del centrosinistra è tornato quello dominante da un anno e mezzo, tanto è passato da quando la destra ha facilmente vinto le elezioni politiche sugli avversari divisi: umore nero.

È stato troppo facile illudersi che il vento fosse cambiato, metafora a pensarci ideale per partiti che hanno scelto di andare a vela, ritenendo secondario radicarsi nella rappresentanza di interessi concreti.

È invece impossibile sottovalutare l’impatto che prima la sconfitta in Abruzzo, poi la spaccatura tra Pd e M5S in Piemonte e sopratutto il ritiro ieri in Basilicata di una candidatura durata tre giorni – quando ne mancano cinque al deposito delle liste – hanno sulla credibilità dello schieramento che si oppone o dovrebbe opporsi alla destra.

Se c’è una morale da trarre da questi tre rovesci è che la costituzione di uno schieramento largo e unitario nel campo opposto a quello che oggi è al governo è lontana all’orizzonte.

Le elezioni regionali, che si giocano con leggi maggioritarie, erano l’unico terreno di prova possibile per le alleanze, prima di una sfida alle elezioni europee dove la legge proporzionale incoraggia alla corsa solitaria.

La prova a questo punto può dirsi prevalentemente fallita. Ma è ancora lecito augurarsi che questo fallimento valga come una presa di coscienza.

Non esistono soluzioni facili, non si va avanti con scelte opportunistiche, serve a poco vincere una mano a braccio di ferro con l’alleato, dispetti e concorrenze sfrenate non portano lontani.

L’alleanza è condizione necessaria per essere competitivi ma non è né sufficiente né scontata, dunque va costruita partendo dalla ricerca delle ragioni di fondo dello stare insieme. Che naturalmente sono ragioni per fare qualcosa, non solo contro quello che fanno gli altri.

Esistono queste ragioni? La domanda è ancora aperta, anche perché sia il Pd che Sinistra/Verdi e M5S, per non parlare dei centristi un po’ di là un po’ di qua, hanno risposte diverse, persino contrastanti.

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Quando l’unione non basta

Se oggi per improbabile sorte si ritrovassero al governo dovrebbero ricorrere all’atroce formula del «contratto» introdotta da Conte e Salvini, essendo lontani da proposte condivise su temi non secondari come la politica estera, la giustizia, la politica industriale.

Naturalmente questo richiede che l’alleanza venga presa sul serio come opzione strategica, cosa non scontata sia al vertice del M5S sia nel corpo del Pd.

Il tema andrebbe affrontato in maniera onesta, non nascondendo le difficoltà ma offrendo una risposta pragmatica alle strettoie della legge elettorale maggioritaria.

La vera battaglia che manca è infatti quella contro il sistema di voto che oggi è responsabile di un deficit democratico diverso per intensità ma non per genere da quello che il premierato annuncia.

Litigiose su tanto altro, le leadership di Pd e 5 Stelle vanno d’accordo nel dimenticare l’urgenza di abbattere il Rosatellum. Per piccole convenienze trascurano le possibili alleanze in questa battaglia.

Eppure potremmo presto assistere a un paradosso, al fatto cioè che Pd e 5 Stelle litigheranno meno nella campagna per le europee, dove pure corrono con il proporzionale tutti contro tutti, che nella composizione delle coalizioni da presentare nei sistemi elettorali maggioritari.

Questo, assieme alla necessità di un lavoro politico a monte degli accordi, a riprova che se l’unione talvolta fa la forza, l’unione forzata è quasi sempre una debolezza.