Le immagini sono una questione morale? Domanda retorica obbligata però di fronte alla scelta per il concorso di Utoya 22 Juli, il film norvegese nel concorso della Berlinale che ripercorre il trauma della pacifica Norvegia sconvolta all’improvviso, il 22 luglio del 2011, da due attentati in sequenza: un’autobomba nel centro di Oslo, vicino ai palazzi del governo, e soprattutto il massacro sull’isola di Utoya dove la stessa persona, l’estremista fascista, Anders Breivik, uccise 70 ragazzi che partecipavano al campeggio dei giovani laburisti. Il film di Erik Poppe trasforma la vicenda in un horror movie a partire dalle «coincidenze» tra il meccanismo narrativo del genere e la realtà: un gruppo di adolescenti, l’estate, il bosco, l’uomo nero che si nasconde da qualche parte, che non ha volto e semina morte, la fuga disperata, la confusione (l’uomo è vestito da poliziotto e a un certo punto tra i ragazzi in fuga si diffonde l’idea che sia la polizia a attaccarli), la carneficina, l’eroina.

Per un’ora e mezza il film segue la giovane Kaja, ragazza perfetta che da grande vorrebbe essere primo ministro del paese e che all’improvviso si scopre fragile, impotente di fronte alla minaccia ma che cerca comunque di salvare altre vite mentre continua (piena di sensi di colpa) a cercare la sorella minore, Emilie, con cui ha litigato poco prima che tutto cominciasse. Poppe costruisce il film sulla durata «reale« dell’attacco, all’incirca 70 minuti, prima dell’arrivo dei soccorsi, lasciando fuori tutto il resto: siamo lì, con quei ragazzini terrorizzati che fuggono e muoiono senza sapere perché. Il pericolo non ha volto, è solo il rumore di spari che ricomincia a ripetizione, un’ombra scura, la sequenza dei colpi, il sangue, il terrore fuori controllo …

La spettacolarizzazione di un evento simile è abietta di per sé, e ancora di più qui perché si limita a essere tale senza cercare una corrispondenza tra il soggetto, la scelta narrativa, la forma del film nel genere che utilizza, l’horror appunto, svuotato del suo potenziale politico e di riflesso possibile (e distorto) della società. Cosa accade sul’isola di Utoya? La fiducia (nel futuro, nelle istituzioni?) di una generazione di cittadini viene distrutta, è il solito attentato solitario modello scuole americane incubo delle armi o non è piuttosto la spia che rivela un malessere diffuso, una crepa sociale (Breivik condannato al massimo della pena prevista in Norvegia, 21 anni, diceva di voler uccidere i democratici contro i migranti e i musulmani). Poppe sceglie invece di inchiodarci alla paura, all’angoscia, all’ansia senza un happy end, nell’empatia con le vittime a cui incolla a sua macchina da presa tra fango, sudore, sangue, lacrime senza morale. E senza cinema.

Babak Jalali si era fatto notare come regista con Radio Dreams (premiato a Rotterdam nel 2016) e come produttore del bel film di Duccio Chiarini Soft Skin (sviluppato all’interno del Biennale College di Venezia). Land, la sua nuova regia (Panorama) conferma un talento che unisce intuizioni narrative e sentimento dei luoghi e di un paesaggio umano percorso con delicatezza. La terra del titolo, Land, è quella americana della riserva nativa di Prairie Wolf, alcol, povertà, emarginazione. Per sei birre se non hai soldi puoi fare un pompino, il giorno è una infinita attesa da ammazzare, il confine è quello dello spaccio degli alcolici gestito dagli occidentali, razzismo, disprezzo, un muro di polvere e solitudine.

È qui che vive la famiglia protagonista, i Denetclaw, il figlio più piccolo lo hanno ammazzato in Afghanistan, aspettano il corpo per seppellirlo. L’altro fratello è alcolizzato mentre il maggiore, Raymond, ha smesso di bere, ha una moglie, due figli ma ha deciso di isolarsi dal mondo. Jalali, iraniano, cresciuto a Londra (che per questo film ha trovato il supporto di Asmara films di Ginevra Elkann) ha preso spunto da un articolo sull’alcolismo nelle riserve dei nativi americani (problema antico) e ha sviluppato la sua storia dopo ricerche, un lungo periodo passato nelle riserve raccogliendo le esperienze di chi le abita, sette anni di lavoro tra molti ostacoli. Ma Land, una delle belle sorprese di questa Berlinale, non è una inchiesta, anche se di quella realtà restituisce con precisione crepe e conflitti, quello che il regista mette al centro è il sentimento che l’attraversa, cosa significa vivere sospesi tra un «dentro» e un «fuori» entrambi senza orizzonti.

Gli attori sono tutti nativi (e il film è girato vicino a Tijuana, un’altra esperienza di confine), e forse quanto interpretano somiglia a qualcosa che conoscono da vicino ma è proprio la distanza narrativa infonde al film la verità. Sappiamo dove è la macchina da presa, dove è il regista che non gioca mai sul confine tra «documentario» e «finzione», assume fino in fondo il suo ruolo, sappiamo che siamo in un racconto, nell’altro lato dell’epica e del mito, nella sua declinazione contemporanea quando i ragazzi nativi muoiono in guerra ma l’indennizzo per loro è più basso. Jalali accorda questa ballata senza retorica né eroismi patinati, nel quotidiano dei suoi protagonisti, in un gesto di resistenza che racchiude la Storia sempre attuale di un Paese.