L’America perde Ruth Ginsburg, la sua giudice più giusta
La scomparsa di "Notorious RBG" Baluardo dei diritti di tutte le donne statunitensi, il membro più radicale dell’Alta corte, un’icona pop suo malgrado. Aveva 87 anni. Le ultime parole scritte a una nipote: «Il mio più fervente desiderio è di non essere sostituita fino all'insediamento di un nuovo presidente». Non andrà così
La scomparsa di "Notorious RBG" Baluardo dei diritti di tutte le donne statunitensi, il membro più radicale dell’Alta corte, un’icona pop suo malgrado. Aveva 87 anni. Le ultime parole scritte a una nipote: «Il mio più fervente desiderio è di non essere sostituita fino all'insediamento di un nuovo presidente». Non andrà così
«Quando ci saranno abbastanza donne alla Corte suprema? Quando ce ne saranno nove». Il bon mot del “giudice supremo” Ruth Ginsburg fece il giro degli Stati uniti in un lampo, e ce n’era motivo. Quella anziana signora sorridente e tanto bassetta da mettere in crisi le foto di gruppo era il difensore non ufficiale di ogni donna d’America da almeno mezzo secolo. Aveva 87 anni, Ruth Bader Ginsburg, e un cancro al pancreas. Il cancro ha vinto, ma gli sono serviti dieci anni e cinque assalti per piegare justice Ginsburg, che faceva la chemio solo di venerdì e usava il weekend per riprendersi (due sole assenze in 27 anni).
IERI GLI STATI UNITI HANNO PERSO il giudice più radicale che avessero, diventata nel tempo e suo malgrado un’icona pop, e il presidente Trump ha guadagnato l’insperata l’occasione di nominare un giudice supremo di fiducia a poche settimane da elezioni molto rischiose. Una Corte suprema addomesticata può regalargli la presidenza.
Ruth Ginsburg lo sapeva. Era successo proprio a lei di firmare l’opinione di minoranza quando la Corte suprema convalidò il pasticcio elettorale della Florida nel 2000. Nella sentenza Gore versus Bush, la giudice attaccò con un secco «Io dissento», mozzando il «rispettosamente» con cui ogni giudice sempre iniziava.
VENT’ANNI DOPO, l’ultimo lascito della giurista morente sono poche parole scritte a una nipote: «Il mio più fervente desiderio è di non essere sostituita fino all’insediamento di un nuovo presidente». I nove giudici supremi sono nominati dal presidente e sottoposti al vaglio del Senato, restano in carica a vita o finché se la sentono, le loro sentenze costituzionali hanno enormi poteri.
[do action=”citazione”]Non andrà come Ruth Ginsburg avrebbe voluto.[/do]
Ebrea di Brooklyn, nata nel 1933 mentre la Depressione mordeva, Ruth Bader riuscì a andare alla Cornell e poi alla scuola di legge di Harvard, una di 9 donne su 500 studenti – e a tutte il decano chiese come si giustificassero ad aver tolto il posto a un maschio. Ma non era così Martin Ginsburg, studente disposto a farsi affascinare da una donna gravata di cervello. Laurea, matrimonio, due figli, specializzazione, prima classificata dei 500 del suo corso… e nessuna offerta di lavoro. A New York, dove ci sono più studi legali che carretti di hot dog. Martin guadagnava come tributarista, ma soprattutto cambiava pannolini, faceva bagnetti e spazzava casa esattamente come la moglie. Negli anni Cinquanta. Anni in cui era legale licenziare le donne all’inizio di una gravidanza (come capitò alla futura giudice Ginsburg). Cucinare no, ai fornelli c’era sempre lui. «Ruth era una cuoca atroce – raccontò – e per niente interessata a imparare».
«Ero ebrea, ero donna, ero madre»: preclusi gli studi legali, Ruth Ginsburg puntò sull’università, negli anni Sessanta si fece un nome sui diritti di genere e nel ’71 vinse la sua prima causa alla Corte suprema, che riguardava la preferenza ai maschi come esecutori testamentari. La già assai prestigiosa American civil liberties union (Aclu) la arruolò negli anni Settanta per dare la caccia alle discriminazioni, con un approccio che diventerà caratteristico: sfidare le iniquità una alla volta sul terreno dell’applicazione pratica più che sui principi. Negli anni Ottanta Jimmy Carter la nominò alla Corte d’appello federale di Washington. Il profilo delle sue sentenze era moderato, centrista, persino timido.
E poi arrivò Bill Clinton. Appena eletto, nel 1993, scelse lei per la Corte suprema al posto del vecchio Byron White, indicato da John F. Kennedy. Ma quando entrò per la prima volta nel palazzone neoclassico in marmo bianco del Vermont, la democratica moderata si trasformò in una radicale. E nei 150-200 casi che i supergiudici valutavano ogni anno (su circa 7.000 richieste), cominciarono a fioccare gli «I dissent». Dalle donne nelle forze armate ai matrimoni omosessuali, dal finanziamento pubblico della sanità al divieto di deportare naturalizzati americani se commettono crimini: dove i diritti rischiavano, Ruth Ginsburg si metteva in mezzo e spesso si tirava dietro i moderati.
E DIVENTÒ UN’ICONA. Una studentessa di legge aprì un account su Tumblr a suo nome, e sulla popolare piattaforma di microblogging la giudice Ruth Bader Ginsburg diventò Notorius RBG, la famigerata RBG, citazione del rapper Notorious BIG ucciso a colpi di pistola nel ’97. Un trionfo: richieste di selfie per strada, ritratti su magliette, tazze, borse e ammennicoli vari, il celebre collarino di pizzo della sua toga rifatto da Banana Republic in cristalli swarowski… Proprio RBG (in italiano Alla corte di Ruth) è il film che gli dedicano nel 2018, candidato a due Oscar.
Nel coro di condoglianze, ieri Washington ribolliva di nomi per sostituirla: i senatori Ted Cruz e Tom Cotton, la giurista di Chicago Amy Coney Barrett, cattolica con 7 figli… I giudici supremi sono cinque conservatori (il presidente John Roberts e Samuel Alito, Clarence Thomas, Neil Gorsuch e Brett Kavanaugh) e tre progressisti (Stephen Breyer, Elena Kagan e Sonia Sotomayor). Il leader di maggioranza al senato, il repubblicano Mitch McConnell, ha già dichiarato che «il nome scelto dal presidente Trump sarà messo ai voti». Con eccezionale improntitudine, perché si tratta dello stesso Mitch McConnell che aveva rifiutato di mettere ai voti il giudice supremo scelto da Obama nel 2016, perché «il popolo americano deve far sentire la sua voce». Per finire il mandato a Obama mancavano otto mesi, a Trump sei settimane.
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