L’ambiente vittima dimenticata degli armamenti
Emissioni militari Per contrastare la crisi climatica uno degli obiettivi era quello di ridurre le spese militari. Le guerre e la corsa al riarmo stanno portando nella direzione opposta
L’impatto che il settore militare ha sugli ecosistemi e sul clima è un tema che solo di recente è stato affrontato con la necessaria attenzione.
La crisi climatica ed ecologica hanno alla base l’elevata quantità di gas serra che vengono prodotti a livello mondiale. Le attività militari sono tra i fattori che incidono maggiormente sull’ambiente, sia in tempo di pace che di guerra. Per contrastare il cambiamento climatico uno degli obiettivi era quello di ridurre le spese militari. I venti di guerra che spirano sempre più forti e la corsa al riarmo stanno portando nella direzione opposta. I piani di riarmo che stanno coinvolgendo tutti i paesi mettono in discussione tutti i progetti di decarbonizzazione.
L’economia di guerra si basa sulle fonti fossili e gli obiettivi che prevedono di dimezzare entro il 2030 le emissioni di gas serra e la neutralità carbonica entro il 2050 rischiano di rimanere sulla carta. L’accelerazione della militarizzazione produrrà, inevitabilmente, due effetti: un aumento dei rischi di conflitto e la sottrazione di risorse al settore sociale (sanità, istruzione, previdenza) e della transizione ecologica.
I costi umani e ambientali che i conflitti in corso stanno determinando non sembrano sufficienti a fermare la macchina che si è messa in moto.
Secondo il recente rapporto dell’Istituto internazionale di ricerche sulla pace di Stoccolma (Sipri), nel 2023 la spesa militare mondiale ha toccato i 2.443 miliardi di dollari, un record storico, con un aumento del 6,8% rispetto all’anno precedente.
LA GUERRA IN UCRAINA HA DATO IMPULSO alla spesa per armamenti che rappresenta attualmente il 2,3% del Pil mondiale. Gli Stati Uniti con 916 miliardi di dollari detengono il 37% della spesa militare globale e il 68% di quella della Nato. La spesa militare dei 31 paesi che costituiscono la Nato nel 2023 è stata pari a 1260 miliardi di dollari, più del 50% del totale mondiale. L’Unione europea ha aumentato le spese militari del 50% dal 2014, arrivando a 295 miliardi di euro. Per l’Italia l’incremento della spesa militare rispetto al 2014 è stato del 31% e l’incidenza sul Pil è dell’1,6%. La spesa militare della Russia, impegnata nella guerra contro l’Ucraina, nel 2023 ha toccato i 109 miliardi di dollari, con un incremento del 24% rispetto all’anno precedente.
L’AUMENTO, CHE HA INTERESSATO tutte le aree geografiche, ha fatto dire ai ricercatori del Sipri che «non c’è zona del mondo in cui le cose siano migliorate». I paesi che nel 2023 hanno speso di più in valore assoluto sono Stati Uniti, Cina, Russia, India, Arabia Saudita, Regno Unito, Germania, Ucraina, Francia, Giappone, Corea del Sud, Italia. L’indicazione sempre più pressante dell’Alleanza atlantica sui paesi che ne fanno parte per destinare almeno il 2% del Pil alle spese militari si tradurrebbe in un aumento di spesa di 6 volte rispetto al 2014. La costruzione di nuove armi in nome della «deterrenza e dissuasione» significa avviare i paesi Nato verso una guerra su larga scala. La Rete Pace Disarmo, nel denunciare gli effetti che i conflitti e la militarizzazione hanno sulle popolazioni e sull’ambiente, afferma che «stiamo subendo le conseguenze di un approccio militarista alle relazioni internazionali e alle emergenze globali, imposto dai paesi del Nord del mondo».
MA IN CHE MISURA L’AMBIENTE è la «vittima silenziosa» delle attività militari? Anche in tempo di pace il settore militare ha un peso rilevante nelle emissioni di gas serra. L’armamento militare anche quando non viene usato ha un elevato impatto ambientale per la grande quantità di combustibili fossili che vengono impiegati. L’aumento delle spese militari si traduce in un aumento dei gas serra in relazione alla produzione di mezzi militari e armi, la loro manutenzione, le esercitazioni militari, l’approvvigionamento di merci e materiali, la logistica. La costruzione di carri armati, aerei e navi militari, missili, bombe, avviene sfruttando risorse naturali: metalli, combustibili fossili, acqua. Si distrugge l’ambiente per produrre armi che a loro volta produrranno morte e distruzioni. In un rapporto pubblicato dall’Osservatorio sui conflitti e l’ambiente, si stima che l’impronta di carbonio riconducibile all’insieme delle attività militari è pari al 5,5% delle emissioni globali. I trattati sul clima non prevedono l’obbligo per i singoli paesi di di contabilizzare le emissioni del settore militare.
I DATI DISPONIBILI MOSTRANO che gli eserciti di Stati Uniti, Russia e Cina emettono quantità di gas serra superiori a quelli di molti paesi. Secondo il Climate and Community Project, le forze armate di Stati Uniti e Regno Unito hanno prodotto dal 2015 al 2023 almeno 430 milioni di tonnellate di CO2 equivalente. Un’altra ricerca della Lancaster University (Regno Unito) mette in evidenza che il Pentagono, la più grande organizzazione militare, impiega ogni anno più di 82 milioni di barili di petrolio, pari al consumo annuo di paesi come il Portogallo o la Finlandia.
NEL CORSO DI UNA GUERRA la situazione peggiora perché aumenta considerevolmente l’impiego di combustibili fossili per il funzionamento dei mezzi militari e per l’utilizzo esplosivi di ogni tipo. I bombardamenti, gli incendi nei depositi, la distruzione di edifici civili e industriali, impianti petrolchimici e siderurgici, gli incendi nei boschi, fanno aumentare considerevolmente le emissioni di gas serra. In un rapporto dell’Osservatorio sui conflitti e l’ambiente pubblicato a fine 2023, si calcolava che nei primi 18 mesi di guerra in Ucraina erano stati immessi nell’atmosfera più di 150 milioni di tonnellate di CO2 e di altri gas serra, paragonabili alle emissioni annue di un paese industrializzato come il Belgio. Ora i mesi di guerra sono diventati 28 e si annunciano scenari ancora peggiori, in una spirale che può portare all’allargamento del conflitto. Aumenta la spesa militare in tutti i paesi, ma non cresce Il volume degli investimenti globali da destinare alla transizione energetica.
SECONDO IL RAPPORTO ANNUALE di Climate Policy Initiative, gli investimenti primari per la lotta al cambiamento climatico rappresentano appena l’1% del Pil mondiale. Per rispettare gli obiettivi fissati dall’accordo di Parigi, che prevede di contenere l’aumento di temperatura entro 1,5 °C rispetto al periodo preindustriale, sarebbe necessario aumentare di 8 volte gli investimenti attuali. Per i paesi a basso reddito, che maggiormente stanno subendo gli effetti dei cambiamenti climatici, i finanziamenti dovrebbero aumentare di 15 volte.
L’AGENZIA INTERNAZIONALE per le energie rinnovabili (Irena) indica in 5700 miliardi l’investimento annuo necessario a portare avanti il processo di decarbonizzazione, indirizzando su questo obiettivo i finanziamenti che attualmente vanno ai combustibili fossili. Stiamo assistendo, invece, alla inversione nelle politiche ambientali. Anche la Politica agricola comune (Pac) per il periodo 2023-2027 è stata rivista al ribasso per quanto riguarda il contrasto ai cambiamenti climatici e biodiversità.
TUTTO QUESTO AVVIENE MENTRE l’Organizzazione per la meteorologia rileva che la concentrazione di CO2 nell’atmosfera ha superato nel 2023 i 420 ppm, il livello più alto rispetto al periodo preindustriale. La crisi climatica ed ecologica richiederebbe cooperazione tra i paesi, non certo una accelerazione della militarizzazione, con il sistema industriale-militare che mira ad accaparrarsi quote sempre maggiori di investimenti. In questa situazione, la transizione ecologica è destinata a procedere a rilento, allontanandoci dagli obiettivi globali sul clima.
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