La specie umana, che ormai stabilmente consuma più risorse di quelle generate dall’ecosistema del pianeta Terra, produce con le sue attività una quantità di emissioni di anidride carbonica superiore a quella che i processi biologici naturali riescono ad assorbire, con effetti sempre più gravi sugli equilibri climatici globali. L’agire umano, in particolare quello economico, non è più ambientalmente sostenibile. In altri termini, sviluppo economico e mantenimento degli equilibri ecologici sono incompatibili. Perciò parlare di sviluppo sostenibile è una truffa, alla quale si prestano persino molti ambientalisti. Sostiene questa tesi “L’imbroglio dello sviluppo sostenibile” (150 pagine, 14 euro, Lindau), il nuovo libro di Maurizio Pallante, fondatore del Movimento per la decrescita felice.

Scrive Pallante: «Lo sviluppo sostenibile, cioè il tentativo di tenere insieme la crescita economica con la sostenibilità ambientale, è stato l’obiettivo delle ventisei Cop (Conferenze delle parti) che si sono svolte a partire dalla Conferenza sull’ambiente e lo sviluppo organizzata dall’Onu a Rio de Janeiro nel 1992. Poiché la crescita economica è la causa dell’insostenibilità ambientale, i due obiettivi sono inconciliabili, come dimostra il fatto che dal 1992 la crisi ecologica si è aggravata».

Secondo Pallante, tutti i tentativi di frenare la corsa verso il disastro ambientale che non prevedano una riduzione, ragionata e programmata a livello globale, della crescita economica sono inefficaci. Tutt’al più rallentano quella corsa, ma non la arrestano. L’esempio più stringente è quello delle fonti energetiche rinnovabili: eolico, fotovoltaico e idroelettrico. Per attenuare l’effetto serra, secondo Pallante, la strada maestra non è la ricerca di fonti pulite che consentano di accrescere l’offerta di energia riducendo al contempo le emissioni di gas climalteranti. Questo è necessario, ma non basta.

Per portare nuovamente in equilibrio il rapporto tra attività umane e ambiente occorre ridurre la domanda complessiva di energia. Come? «La decrescita – scrive Pallante – propone di introdurre criteri qualitativi nella valutazione delle attività produttive e quindi di ridurre selettivamente il Pil facendo scendere la quantità delle merci inutili e dannose che peggiorano le condizioni di vita. La decrescita non è il meno contrapposto al più. È il meno quando è meglio».

Mostra quindi apertamente, il libro di Pallante, quale sia il segno politico del Movimento per la decrescita. Il modo di produzione che sta mettendo a rischio la sopravvivenza della specie umana viene definito dall’autore con l’aggettivo “industriale”. Non compare mai il termine “capitalistico”. E non a caso. «La decrescita – scrive Pallante – non definisce un modello di società alternativo a quello che ha finalizzato l’economia alla produzione di merci. La decrescita è la strada obbligata da percorrere, in questa fase storica, per rientrare nei limiti della sostenibilità ambientale. La meta da raggiungere è una società sostenibile, equa e solidale, fondata su un paradigma culturale non antropocentrico, ma biocentrico».

Un percorso che va in una direzione differente da quella che il mondo ha preso con la “rivoluzione” neoliberista. Ma, altrettanto certamente, che resta all’interno del paradigma economico e sociale del capitalismo, delineando non un superamento dell’attuale modello di produzione, ma una sua decisa correzione. Siamo ben lontani dalle analisi che, da Paul Burkett a John Bellamy Foster sino a Jason W. Moore e ad Andreas Malm, nel campo dell’ecologia politica recuperano e innovano in funzione ecologista gli strumenti del pensiero marxiano e del pensiero radicale per evidenziare che, se si resta dentro i confini dell’ordine esistente, il disastro ambientale è inevitabile.