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L’altro fronte: Cisgiordania terra negata

L’altro fronte: Cisgiordania terra negataUna abitante di Khirbet Zanuta Getty/Marcus Yam

Tremenda vendetta La cacciata, il ritorno, la nuova espulsione: il villaggio palestinese di Khirbet Zanuta racconta l’intreccio tra istituzioni e movimento dei coloni e di un’occupazione che si è fatta annessione

Pubblicato circa 5 ore faEdizione del 5 ottobre 2024

Il ritorno a casa di Khirbet Zanuta è durato appena un mese. La comunità palestinese si è eclissata di nuovo, qualche giorno prima che scadesse l’ultimatum dell’Amministrazione civile israeliana, il primo ottobre. La storia del piccolo villaggio di contadini nel sud della Cisgiordania ricalca un modello noto nei Territori palestinesi occupati: lo sfollamento forzato, dietro la pressione insostenibile di due realtà, l’esercito e i coloni, che operano in simbiosi, si mescolano l’una all’altra sfumando i confini tra istituzioni e movimenti.

A KHIRBET ZANUTA, 150 abitanti nelle colline a sud di Hebron – da decenni prede di un colonialismo fatto di espansione degli insediamenti e imposizione di zone militari – eravamo stati il 30 ottobre 2023. La strada di massi e terra rossa che conduceva al villaggio era stata chiusa già da settimane dall’esercito con blocchi di cemento e montagne di sabbia. Era successo ovunque in Cisgiordania dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre: piccole frazioni e grandi città isolati gli uni dagli altri a inaugurare un anno difficilissimo, di chiusure, assedi, incursioni militari sempre più frequenti e miseria crescente.

A poche decine di metri dalla Road 60, quel giorno donne uomini e bambini stavano completando i preparativi. Sui furgoncini avevano caricato tutti i propri averi, materassi, tende, vestiti, mobili, i sacchi di iuta con il mangime per le pecore e le capre, anche le lamiere con cui avevano tirato su le stalle per le greggi. L’acqua veniva travasata dalle taniche ai container, pagati a caro prezzo dalla compagnia parastatale israeliana Mekorot. È acqua palestinese, ma falde e sorgenti sono controllate da Israele.

IN POCHI GIORNI Khirbet Zanuta si è impacchettata e ha lasciato la terra su cui esisteva da generazioni. Per secoli si è vissuto in case di pietra e grotte. Le hanno sostituite con le tende e le strutture in alluminio quando le abitazioni di prima hanno cominciato a collassare. «Me ne vado per i miei figli, ho paura che gli facciano del male – ci aveva raccontato Amin al-Kadharat con il cappello in mano e gli occhi rossi – È il momento più difficile della mia vita. Entro due giorni questo posto sarà vuoto. Non riesco a immaginarmelo vuoto. Stavamo insieme ogni giorno, nei campi, al pascolo. E la sera ci riunivamo a bere il tè, a raccontarci storie». La decisione non era stata presa a cuor leggero. Era giunta dopo mesi di violenze, che scendevano sulla comunità dalla vicina colonia di Meitarim: pestaggi, distruzione delle cisterne, furto delle greggi. Fucili puntati addosso, auto danneggiate.

I 150 ABITANTI non hanno rinunciato a tornare. Nei mesi successivi, con l’aiuto di avvocati palestinesi e ong israeliane, si sono rivolti alla giustizia del paese che li occupa. Hanno mosso ricorso, in mano i documenti che attestano la proprietà della terra. E – succede poche volte ma succede – all’inizio di agosto la Corte suprema israeliana gli ha dato ragione: Khirbet Zanuta ha diritto a esistere proprio lì, dove stava prima. Esercito e polizia israeliani devono garantire il ritorno in sicurezza. Una ventina di giorni dopo, un pezzo di comunità si è impacchettata di nuovo ed è tornata a casa. Ha rimesso su tende, stalle e cisterne d’acqua.

LA GIOIA è durata solo dieci giorni. Il 9 settembre l’Amministrazione civile israeliana – l’ente che si occupa per Tel Aviv di “gestire” i Territori occupati – si è presentata al villaggio: o ve ne andate o entro un mese demoliamo tutto. «Le famiglie sono state espulse di nuovo nonostante la sentenza della Corte suprema – ci dice Yehuda Shaul, attivista israeliano impegnato in Cisgiordania al fianco delle comunità palestinesi – I militari non gli hanno permesso di ricostruire e non li hanno difesi, nonostante il tribunale lo imponesse: in sole tre settimane la comunità è stata aggredita dai coloni quasi 200 volte». Oltre alle case e alle stalle, sotto i cingoli dei bulldozer israeliani è caduta anche la scuola, finanziata dall’Unione europea con lo scopo, si leggeva nel banner sulla porta, di impedire lo sfollamento forzato dei palestinesi. Un’ironia che non fa ridere.

Secondo le autorità israeliane, si deve agire diversamente ovvero con un piano di ricollocamento, perché Khirbet Zanuta si trova in Area C, il 60% della Cisgiordania che dagli Accordi di Oslo del 1993 ricade sotto il controllo totale, civile e militare, di Israele. Che decide cosa costruire, come, quanto. Al Times of Israel, l’avvocata che rappresenta il villaggio, Quama Mishirqui-Assad, ha accusato lo Stato di Israele di proseguire sotto altra forma il lavoro dei coloni. Che sia la burocrazia dell’occupazione che minaccia demolizioni citando la presenza di un sito archeologico (vecchia strategia di spossessamento) o l’esercito che si presenta dai residenti per proibirgli di mettersi un tetto sulla testa: vietato riparare le case e coprirle con le lastre di alluminio.

PER UN MESE hanno dormito tra quattro parenti e nessun soffitto. Bastava comunque, il senso del ritorno colmava l’aria, dava colore ai fichi d’india e alle foglie impolverate degli alberi di limone.

Khirbet Zanuta non è sola. È una delle decine di comunità palestinesi in Area C – tra Valle del Giordano e sud di Hebron – costrette a lasciare le proprie terre dopo il 7 ottobre, oltre 4mila persone, per il mix letale di violenza dei coloni ed esercito. Seguono a un altro migliaio di palestinesi già sfollati dall’entrata in carica del governo più a destra della storia israeliana, alla vigilia di capodanno 2023. La pratica è di lungo corso, fin dall’inizio dell’occupazione militare della Cisgiordania nel 1967: massimizzare i palestinesi in spazi minimi, allontanandoli dalle comunità agricole e pastorali a cui i coloni e lo Stato guardano per ampliare insediamenti e rendere l’annessione un dato di fatto. Lo ha detto anche la Corte internazionale di Giustizia, a luglio: l’occupazione israeliana è annessione e apartheid.

EPPURE, mai è stata tanto feroce. Dopo il 7 ottobre la Cisgiordania è ripiombata nella repressione orribile degli anni della Seconda Intifada. I numeri li ha raccolti il Palestinian Institute for Public Diplomacy: oltre 700 uccisi in un anno, un bambino ammazzato ogni due giorni; 1.725 strutture distrutte o confiscate, 4.450 sfollati (di cui oltre 1.800 minori); 25 nuovi insediamenti coloniali messi su dai coloni e tre retroattivamente riconosciuti dal governo israeliano; 1.390 aggressioni perpetrate dai coloni, con un bilancio di 135 palestinesi uccisi e feriti.

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Questi i dati, poi ci sono le storie. E un’operazione militare feroce, ribattezzata «Campi estivi», torsione distopica del linguaggio che si fa materia. Città e campi profughi del centro e del nord della Cisgiordania hanno subito per settimane incursioni dell’esercito, bombardamenti via droni, assedi e chiusure, devastazioni delle infrastrutture. In pochi giorni sono state sbriciolate strade, reti idriche, negozi, market, case. Una riproposizione in scala della devastazione di Gaza.

DECINE i palestinesi uccisi tra Jenin, Tulkarem, Tubas, Nablus. E centinaia gli arresti, una pila che ad avercela di fronte non se ne intuirebbe la fine. Sono oltre 10mila i prigionieri politici in più dal 7 ottobre, una campagna di arresti di massa, randomizzata, che in qualche modo ha ricreato un ponte, tra Gaza e Cisgiordania, di condivisione: in comune una libertà fittizia che si sgretola. Si sono ritrovati, palestinesi gazawi e cisgiordani, dopo anni di separazione forzata, dietro le mura delle prigioni, tramutate – ha denunciato l’ong israeliana B’Tselem – in campi di tortura. Dalle celle si esce ridotti a larve umane.

Pare questo, più di altro, più della paura di morire, a frenare la reazione popolare palestinese, nelle piazze e le strade: il terrore di finire nel buco nero che risucchia l’essere umano, annunciato dai soldati israeliani con la vernice all’ingresso delle carceri: «Welcome to hell».

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