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Anticolonialismo e anche pogrom

Anticolonialismo e anche pogromManhattan, i manifesti con i volti degli ostaggi israeliani strappati da un palo della luce foto Getty Images/Michael Nigro

Tremenda vendetta Il cortocircuito tra l’identità di minoranza oppressa e quella di oppressori

Pubblicato circa 7 ore faEdizione del 5 ottobre 2024

L’accusa di antisemitismo è abusata al punto tale da esser quasi inservibile. Il suo uso improprio fa sì che sia sempre più difficile contrastare i casi reali, che pure sono tanti e in crescita. Oltre all’ignobile impiego volto a legittimare i più di 41mila morti a Gaza e ora l’attacco contro il Libano, a intorbidire le acque sono poi alcuni tra i soggetti che lanciano l’accusa.

Diversi postfascisti, semifascisti, fascisti 2.0 accusano terzi di antisemitismo e tacciono del proprio. Si professano filosemiti per potere essere apertamente islamofobi e razzisti. Parte del mondo liberale aderisce alla stessa visione che divide l’immaginaria civiltà (ebraico) cristiana da quello musulmana.
Certo c’è un’affinità ideologica tra la destra razzista israeliana e quella globale che la supporta e certo ci sono dei problemi di antisemitismo a sinistra. Eppure il fatto che in Francia il “cacciatore di nazisti” Serge Klarsfeld abbia scelto il Fronte nazionale di Le Pen in quanto vicino a Israele contro il Fronte repubblicano antifascista è qualcosa che non si può liquidare frettolosamente.

IN LARGA PARTE delle comunità ebraiche, dal 7 ottobre in avanti, si è affermata l’idea che la sinistra sia nemica. Non sempre è stato così. Sartre negli anni Sessanta sosteneva la violenza anticoloniale ma si opponeva al fatto che «gli arabi volevano buttare a mare gli ebrei». Marcuse aveva posizioni più dure ma non troppo diverse.

La Shoah era vicina, l’Urss aveva sostenuto la nascita di Israele, i kibbutzim erano visti come un positivo esempio di socialismo cooperativo e la revisione storiografica israeliana non era ancora iniziata. Pur se si era solidali con le lotte anticoloniali, la consapevolezza della profondità del razzismo occidentale non era matura.

Neanche gli intellettuali più radicali si rendevano conto che loro stessi fossero partecipi di un sistema di dominio. Nell’antisemitismo, invece, sapevano riconoscere il lato oscuro della modernità che nella «dialettica dell’illuminismo» aveva – anche – prodotto Auschwitz.

Oggi, in un tempo in cui nella sinistra radicale c’è maggior sensibilità alle ragioni anticoloniali, molti ebrei hanno lamentato l’assenza di solidarietà per il 7 ottobre, quando non l’aperta ostilità. Una delle ragioni è che spesso gli ebrei israeliani e quelli della diaspora vengono identificati come esponenti del colonialismo bianco, a prescindere dall’effettiva composizione della popolazione ebraico-israeliana (il 45% della quale viene da paesi non occidentali) e dal fatto che la bianchezza, pur se non coincide con la sola pigmentazione ma rappresenta un insieme di valori, è una categoria da usare in modo più articolato.

Anche la tesi di Israele come stato coloniale di insediamento, pur utile, dovrebbe fare i conti con l’assenza di una madre patria dei rifugiati-coloni ebrei e con le ragioni specifiche e tragiche della persecuzione millenaria retrostante al loro cercar riparo in Palestina – cosa che Edward Said non a caso faceva.

SPESSO IL SIONISMO, invece, non è visto come un episodio e un prodotto di quell’«immenso mattatoio» che è la storia, un nazionalismo aggressivo, che mostra tutto il potenziale di violenza e razzismo che un’identità armata può dispiegare. Equiparandolo al nazismo, si pensa di pareggiare i conti con la Shoah. Altre volte il sionismo è considerato la punta estrema dell’imperialismo occidentale, sintesi della disumanità capitalista. In queste iperboli molti ebrei leggono una radicale delegittimazione più che una critica politica.

L’altra accusa, ben più fondata, che solca un’irrimediabile divisione tra ebrei e sinistra, è quella di genocidio. Se ci sono importanti basi giuridiche e di fatto che hanno portato la Corte Internazionale di Giustizia a sancirne la plausibilità, meno legittima è una possibile implicazione di tale accusa: il passaggio delle vittime alla condizione di carnefici.

Anche se non si possono astrarre così le identità ed è impossibile trovare nessi metafisici, un rapporto tra la condizione di vittima e carnefice è individuabile. Il sopravvissuto ad Auschwitz, Jean Améry nel 1966 scriveva che essere stati nei campi di sterminio non renda migliori. Essere privati di ogni dignità umana fa perdere fiducia nella stessa. Proprio in virtù dell’esperienza di radicale annientamento subita nel lager, Améry identificava l’antisionismo con l’antisemitismo. Il rifugio degli ebrei contro un potenziale nuovo Hitler era messo in discussione e ad Améry toccava attaccare la sua stessa parte politica, la sinistra, in quanto antisionista.

Sentirsi legittimati dal passato e temere una sua ripetizione porta a giustificare ogni azione in termini di risposta ad una minaccia letale. Aver subito il peggio, quando l’esito è la costruzione di un’identità vittimaria, permette di compiere nuove atrocità. Parte delle comunità ebraiche diasporiche e non provano così una empatia selettiva, il cui esito è la disumanizzazione dei palestinesi.

D’altra parte però, davanti alle decine di migliaia di morti palestinesi, ogni richiamo ai pericoli potenziali corsi dagli ebrei ma anche ad attacchi e attentati reali, in certi contesti, è considerato inappropriato. Ma in questa inversa disumanizzazione si dimentica che una vita è una vita e non è negandolo che si aiuta la liberazione palestinese.

UNA PARTE DELLA SINISTRA vede solo la dimensione anticoloniale del 7 ottobre e non anche quella di pogrom. In quella data, in primo luogo, la prigione di Gaza è stata aperta e la società occupante è stata attaccata, disseminando terrore e dimostrando la vulnerabilità del nemico. In secondo luogo, si è trattato di un pogrom. I civili israeliani sono stati uccisi in quanto israeliani ebrei. I non ebrei sono stati colpiti in quanto complici o vittime collaterali. I due piani sembrano escludersi ma non è così.

Il cortocircuito deriva da un fatto: che l’identità dell’oppressore è anche quella di una minoranza storicamente perseguitata. Identità di minoranza – quella ebraica – e identità legata a una maggioranza opprimente – quella israeliana – si sovrappongono. Per i colonizzati, odiare i colonizzatori israeliani ebrei può significare, in qualche modo comprensibilmente, anche odiare alcuni ebrei. Come ha scritto Mohammed El-Kurd , non è colpa sua se gli occupanti sono ebrei.
Dimenticando questa sovrapposizione, i difensori di Israele accusano chi solidarizza con la Palestina di antisemitismo perché non si oppone solo alle azioni di un governo ma alla natura stessa dello stato di Israele. Negando solo agli ebrei il diritto alla sovranità nazionale, si applicherebbe ancora una volta un doppio standard e quindi si sarebbe antisemiti.

Questa critica però non considera un elemento che eccede il «normale», ordinario razzismo proprio di ogni stato nazione che privilegia una maggioranza etnicamente definita. La differenza tra identità ebraica e, ad esempio, italiana sta nella minore possibilità di acquisizione della prima. Anche se l’identità italiana, come di ogni stato nazione, ha un referente implicito razziale (popolo, razza e nazione sono stati a lungo sinonimi), l’identità ebraica è difficilmente acquisibile se non per conversione. L’identità israeliana costruita su quella ebraica rende gerarchica la sua strutturazione, anche prima della legge sullo Stato ebraico del 2018.
Una Palestina e un’Israele postcoloniali, forse e chissà quando, possono sorgere solo rinunciando ai miti dell’autenticità, delle origini e delle radici e riconoscendo i traumi e le asimmetriche ingiustizie.

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