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L’allarme Usa è poco credibile: «Teheran vuole colpire i Saud»

L’allarme Usa è poco credibile: «Teheran vuole colpire i Saud»Un blocco stradale di protesta a Teheran – Ap

Iran Washington: così può inviare i giovani al fronte. Ma l’Iran non può permettersi la guerra. Parla il regista curdo Bahman Ghobadi: «L’Iran e i paesi vicini hanno posto restrizioni al modo di vivere curdo e all’uso della nostra lingua, trattandoci come cittadini di seconda classe»

Pubblicato quasi 2 anni faEdizione del 3 novembre 2022

Togliere i ragazzi che protestano dalle strade iraniane e mandarli tutti al fronte, armi in pugno, a difendere la patria. Di certo ayatollah e pasdaran hanno pensato a creare un diversivo del genere per mettere fine alle proteste scatenate dalla morte di Mahsa Amini. Ma il rischio sarebbe troppo alto: aprire un altro fronte, militare, potrebbe voler dire la fine della Repubblica islamica.

PER QUESTO non ha senso che Stati uniti e Arabia saudita sostengano di aver «condiviso informazioni di intelligence secondo cui l’Iran potrebbe pianificare un imminente attacco alle infrastrutture energetiche in Medio Oriente, in particolare in Arabia saudita». A raccontarlo è stato un funzionario statunitense alla Cnn.

Allo stesso tempo – viene specificato – i caccia F-22 statunitensi già in Arabia saudita sarebbero disponibili per contrastare qualsiasi minaccia. Non ci sarebbe stato invece alcun aumento dei livelli di protezione militare statunitense nella regione: «Si ritiene che l’esercito americano non sia un obiettivo».

IL DATO DI FATTO è che sono almeno 288 i morti e 14.160 le persone arrestate nelle proteste. Le dimostrazioni continuano, nonostante le minacce dei pasdaran che fin da subito hanno preso a pretesto i disordini per colpire le postazioni dei separatisti curdi nell’Iran settentrionale, uccidendo almeno 16 persone tra cui un cittadino americano.

Non è un caso che le proteste siano iniziate proprio in seguito all’uccisione di una ragazza curda: «Se non fosse stata curda, le proteste non si sarebbero infiammate così», ci spiega il regista Bahman Ghobadi.

Attivo su Instagram nel sostenere il dissenso, è autore di numerosi lungometraggi ambientati sulla frontiera tra Kurdistan iraniano e iracheno e del famoso film I gatti persiani che nel 2009 aveva vinto il premio speciale della regia nella sezione Un Certain Regard al Festival di Cannes.

COME LA 22ENNE Mahsa Amini, anche Ghobadi è cittadino iraniano di etnia curda: «Se il suo vero nome era Jina, il mio è Rebwar. In curdo vuol dire forte, indipendente, determinato. Ma le autorità della Repubblica islamica impedirono ai miei genitori – come a quelli di Jina – di registrarmi all’anagrafe con un nome curdo e così mio padre ripiegò su Bahman».

Ai curdi, «vengono negati i diritti di base. Non abbiamo un nostro rappresentante che abbia la possibilità di diventare presidente. Le autorità hanno sempre posto limiti sull’uso delle nostre lingue, della nostra cultura e della nostra religione. Facciamo paura, e non solo agli ayatollah. Anche lo scià ci temeva. Vale per l’Iran ma anche per molti dei Paesi limitrofi, che hanno posto restrizioni e limiti al nostro modo di vivere, trattandoci come cittadini di seconda classe tant’è che il budget più basso dello Stato è sempre allocato al Kurdistan e, in seconda battuta, al Sistan e Balucistan (sud-est)».

Con Ghobadi ci eravamo conosciuti a Torino in occasione di una rassegna cinematografica. In quegli anni, il presidente della Repubblica islamica era il riformatore Muhammad Khatami: «Non stavamo meglio, ma sembrava ci fosse meno pressione e quindi che ci lasciassero respirare».

Il regista abitava a Sulaymaniyya, nel nord dell’Iraq. Ora, invece, «vivo in esilio, peregrino tra oltre undici Paesi. Ho lasciato le mie valigie a casa di amici. Non riesco a trovare pace».

Sul fatto che le dimostrazioni in corso non abbiano un leader, commenta: «I giovani sono alla guida del movimento di protesta, quando otterranno la vittoria organizzeranno elezioni libere e sceglieranno, da soli, qualcuno che sia competente e in grado di andare avanti».

A PROPOSITO di chi nella diaspora cerca di alimentare il dissenso, il regista segnala due personaggi: «La giornalista e attivista Masih Alinejad è molto coraggiosa e farebbe qualsiasi cosa per il suo popolo; e poi c’è lo scrittore Hamed Esmaelion che ha perso la moglie e la figlia nell’incidente aereo dell’8 gennaio 2020, quando i pasdaran abbatterono per errore un aereo delle linee aeree ucraine appena decollato dall’aeroporto di Teheran. Siamo tutti insieme in questa battaglia e spero vinceremo».

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