«Oggi, a Bakhmut, si combatte edificio per edificio, scala per scala, cantina per cantina» (il manifesto 9 febbraio). «Nella casa fortezza (civico 6 sbarra 2) dove Grekov è il “capocasa” » si combatte in pochi metri (Vasilij Grossman, Vita e destino). Bakhmut come una Stalingrado su scala ridotta?

A Stalingrado gli ucraini dell’Armata Rossa ebbero un ruolo assai rilevante. Non solo i comandanti di divisione Batjuk, Denisenko, il comandante del fronte Eremenko erano ucraini, ma centinaia di ufficiali superiori e subalterni e migliaia di soldati. Sul Donec operava un’intera divisione costituita da minatori del Donbass i cui resti confluirono a Stalingrado. Soldati che «con il tipico umorismo ucraino, si dano l’un l’altro dei codardi, mangiando lardo, miele, aglio, pomodori». (Grossman, Uno scrittore in guerra).

A Bakhmut, invece Grekov e Batjuk si sparano vicendevolmente in una orrenda guerra le cui fondamenta furono poste già negli anni Novanta del secolo scorso, quando il problema della nazionalizzazione delle masse diventò elemento fondamentale per la legittimazione delle oligarchie affaristiche che si trovarono a governare le repubbliche ex sovietiche.

Per la «terra di confine» di complesssa e variegata composizione etnico-linguistica, la costruzione della «nazione» ha comportato, e comporta, il ricorso ad un tasso assai elevato di invenzione della tradizione. Le oligarchie governanti il nuovo Stato avevano la necessità di legittimarsi tramite la costruzione di una ucrainità, intesa come un dato naturale e astorico. La reductio ad unum forzata di tale eterogeneità scontava inevitabilmente forma di conflittualità.

In tale contesto la decisione di Putin di tagliare un nodo così ingarbugliato con la spada dell’invasione non poteva che avere esiti tragici, catastrofici. Indipendentemente da come la guerra vada a finire, Grekov e Batjuk resteranno per decenni divisi da un fiume di sangue. Altro che confine «naturale, del Dniepr.

Questo, però, è un conflitto dove le dinamiche nazionaliste, pur importanti, sono solo una componente della violenta contrapposizione tra i progetti diversi dei signori della guerra-mondo per un nuovo «aggiustamento spaziale» dopo la fine dell’Urss.

C’è una relazione fondamentale fra strutture territoriali di potere e le ragioni del controllo delle catene del valore, le ragioni dell’accumulazione che vedono in competizione non pacifica i modelli di capitalismo che possono contare su un potente retroterra statual-militare. L’«aggiustamento spaziale», lo «spatial fix» analizzato da Harvey, è il prodotto inevitabile di una conflittualità tra chi vuole restare the first, e chi vuole partecipare non in maniera subordinata ai profitti garantiti dalla partecipazione alla fluidità del mutamento continuo nel capitale totale.

Il fronte ucraino, il fronte tritacarne su «una spanna di terra», è solo uno di «altri fronti in futuro, come la Cina, l’Indopacifico (…), quello che dovremo combattere in Africa (…) dove la Cina in silenzio sta occupando sempre più pezzi di economia reale e di risorse». Il ministro della guerra italiano (ingenuamenente?) lo ha confermato con insolita chiarezza (il ministro Crosetto, la Repubblica, 9 gennaio).

Ci troviamo, insomma, in un contesto bellico che è, contemporaneamente, risultante, specchio e irradiamento di guerre e temporalità molteplici. Credo che, tra le diverse temporalità, dovremmo riflettere anche su quella che risulta più lontana: le relazioni internazionali nella fase imperialistica conclusasi nell’agosto 1914. Le logiche che emergono dalle affermazioni di Crosetto, come da numerose dichiarazioni di autorevoli esponenti del fronte «occidentale», hanno analogie impressionanti con quelle dei «sonnambuli» che trascinarono l’Europa e il mondo nella catastrofe della «grande guerra».

Poi naturalmente c’è la retorica propagandistica sullo scontro di civiltà, allora come oggi. Qualcuno ha addirittura interpretato la guerra in corso come «scontro carico di filosofia», nel quale «non c’è mediazione possibile». Uno scontro tra «potere occidentale», filosofia occidentale come filosofia della libertà, e «potere orientale», filosofia orientale come filosofia del dispotismo (Biagio de Giovanni, Corriere della sera, 7 febbraio). Un qualcuno che, al di fuori di qualsiasi analisi concreta e specifica dell’oggetto specifico, tramite miseria della filosofia, identifica la Nato con lo «spirito a cavallo» di hegeliana memoria.