«Non ci sono colpi di stato buoni, ma esistono colpi di stato federatori»: con questa frase il beninese Francis Kpatindé – giornalista e docente universitario a Parigi – commenta, sulle onde di Radio France Internationale, la presa di potere dei militari in Gabon avvenuta il 30 agosto 2023. Il putsch fa seguito all’annuncio dei risultati delle elezioni (tenute senza osservatori esterni) che avevano visto la conferma alla presidenza di Ali Bongo, figlio di Omar Bongo, rimasto a capo del paese dall’indipendenza, col sostegno dell’ex potenza coloniale.

UN CONTESTO DIVERSO da quello del Niger dove, il 26 luglio, il generale Abdourahamane Tiani mette agli arresti il presidente Mohamed Bazoum, sino ad allora considerato il leader benvoluto di un paese democratico, sebbene reso fragile dalla minaccia jihadista e dalla povertà endemica.

Pur con le necessarie distinzioni, entrambi gli episodi riflettono un percorso che sta accomunando l’Africa francofona: le insurrezioni ad opera di giovani militari. In Mali, nel 2020, il colonnello Assimi Goïta prende il potere col proposito di creare un regime di transizione in grado di lottare contro il radicalismo islamico, di assicurare l’integrità del territorio nazionale e il buon andamento dell’apparato pubblico. Nel 2021, agli ordini del colonnello Mamady Doumbouya, una giunta militare s’impadronisce della Guinea e il Comité National du Rassemblement pour le Développement s’insedia nella capitale Conakry. All’inizio del 2022, in Burkina Faso, grazie all’esercito, il luogotenente-colonnello Paul-Henri Sandaogo Damiba assume le redini dello stato per poi essere rimpiazzato, nell’autunno, dal capitano Ibrahim Traoré, che lo accusa di non aver mobilitato le forze necessarie alla guerra contro il terrorismo di matrice religiosa.

SE, PRECISA ANCORA Francis Kpantidé su FranceCulture, «ogni colpo di stato ha la sua dinamica», i putsch citati «hanno sempre ricevuto il plauso delle popolazioni, deluse dai personaggi politici eletti», incapaci di garantire «un’equa distribuzione delle ricchezze» e colpevoli di essere delle marionette nelle mani di potenze straniere, la Francia in particolare. Conclude Francis Kpantidé: «Il disamore è diventato rottura. La Francia deve scendere dal suo piedistallo e mettersi in una posizione di ascolto. Per ristabilire il legame due misure s’impongono: la chiusura delle basi militari di Parigi presenti sul continente e il superamento del cordone ombelicale con la Banca di Francia, mantenuto attraverso il franco cfa».

UN RAGIONAMENTO ANALOGO, volto a sottolineare le frustrazioni di un continente abitato da una generazione en mal de futur (privata di un futuro), stanca che le si dica, con arroganza, cosa fare e come muoversi sullo scacchiere internazionale, caratterizza la posizione del giornalista e produttore camerunese Alain Foka. Dal suo sito ufficiale, parla «dei soldati africani desiderosi di prendere il proprio destino in mano, visto che le altre opzioni sono fallite» e di una «governance mondiale che deve cambiare». Constata come i rivoltosi usciti dalle caserme «mobilitino le piazze più dei professionisti della politica e come le popolazioni siano pronte a tutto pur di cacciare figure percepite in termini neocoloniali». Spiega: «Parigi non ha capito nulla e il suo discorso contribuisce ad esacerbare gli animi di africani che si sentono trattati come bambini». Nei paesi subsahariani, «non si crede più in un aiuto offerto per gentilezza. Si contesta la natura della relazione vigente, la quale non appare né democratica né coerente, fronte a un passivo coloniale mai saldato».

AD INSISTERE SULLA POSIZIONE della gioventù africana è pure l’editore franco-maliano Omar Sylla. Durante una conversazione, ci confida: «I nostri figli stanno andando verso un cambiamento radicale, eppure, la loro esigenza di piena sovranità, di rispetto della persona, non è colta dalla Francia. Ciò che essi chiedono è una vera democrazia e i putschisti, ai loro occhi, rappresentano un modo per arrivarci, un momento di passaggio. Ma il giorno in cui i militari tradissero le aspettative, saranno cacciati a loro volta, perché la società civile è tenace». Piuttosto, «ciò che manca è una riflessione seria, promossa da intellettuali le cui analisi accompagnino il processo politico in atto. Il rischio è che il concetto di democrazia assuma una connotazione ambigua. Per evitarlo, si tratta di favorire riforme profonde attraverso il dialogo», incentrate sui problemi che toccano di più la gente (miseria, disoccupazione, corruzione).

IL DIFFICILE RUOLO degli intellettuali africani è il tema evidenziato da Hamadoun Touré, ex ministro maliano e funzionario internazionale in pensione. Al manifesto afferma: «Il dialogo è forza, ma la volontà di esprimersi deve purtroppo fare i conti con l’ambiente circostante. La libertà di espressione può essere ostacolata da chi ha il potere. Talvolta, una scelta tremenda s’impone. Cosa è meglio: un intellettuale prudente ma in vita o un intellettuale coraggioso ma morto?». Quindi argomenta: «Considero la democrazia un bene universale da perfezionare. I colpi di stato in serie nel Sahel potrebbero decretare la fine del mal governo oppure costituirne il prolungamento con le armi. Siamo all’alba di un’era inedita di cui non cogliamo con esattezza i contorni, ma corre l’obbligo di cercare una risposta».

Il nodo critico concerne la capacità dei governi militari di portare a termine il loro programma, senza eternizzarsi al potere, nonostante il contrasto fra l’entità delle ambizioni (migliorare la vita dei cittadini) e il carattere transitorio dell’intervento.

DUE VOCI FEMMINILI della diaspora africana hanno affrontato la questione degli scopi da perseguire. L’ex ambasciatrice dell’Unione Africana presso le Nazioni Unite, Arikana Chihombori-Quao (originaria dello Zimbabwe ma residente negli Usa), su Al Jazeera difende quanto corrisponde, per lei, a una rivoluzione o, meglio, a una «rivelazione pubblica del fatto che vi è qualcosa di sbagliato su come sono andate le cose nel Sahel sino ad ora, al punto che la Francia ha finito per rappresentare un rischio per la pace», anziché un baluardo nella lotta al terrorismo o un sostegno allo sviluppo. Dichiara: «Non abbiamo bisogno di aiuti, ma di commercio», di scambi basati su regole giuste che profittino a entrambi i partner e non, come avviene nel caso dell’uranio del Niger, alla sola industria francese.

Dal canto suo, la presidente dell’African Security Sector Network, Niagalé Bagayoko (padre maliano e madre francese), insiste «sull’obsolescenza degli strumenti mobilitati dagli attori internazionali quando intervengono». Poi denuncia i limiti dell’obiettivo strategico francese: «Restaurare l’autorità degli stati saheliani, quando – invece – è proprio la loro governance ad apparire poco convincente». Per altro, «il negare ogni dimensione politica ai gruppi jihadisti compromette la formulazione di una risposta non violenta al progetto di contratto sociale di cui questi sono portatori attraverso i loro attacchi» (Revue Défense Nationale, n. 841). Un cambio di passo s’impone.