Youssef Al-Khishawi, un agente di MSF per l'acqua e i servizi igienici, aiuta i bambini a trasportare l'acqua nella loro tenda nell'area di Tal Al-Sultan della città di Rafah foto Msf
Youssef Al-Khishawi, un agente di Msf per l'acqua e i servizi igienici, aiuta i bambini a trasportare l'acqua nella loro tenda nell'area di Tal Al-Sultan della città di Rafah – Medici senza Frontiere
Internazionale

L’acqua come arma: così Israele asseta Gaza

Davanti agli occhi Da tredici mesi le autorità israeliane hanno interrotto tutte le forniture, distrutto due terzi dei pozzi e danneggiato quasi tutte le cisterne disponibili. Le uniche risorse arrivano dalle agenzie umanitarie, una goccia nel mare. Reportage dalla Striscia

Pubblicato circa 2 ore faEdizione del 7 novembre 2024

In una Striscia di Gaza assediata da tempo, Al Mawasi era una località dove ci si dedicava all’agricoltura o dove, uscendo dalle città dell’entroterra, si cercava svago e tranquillità. Affacciata sul mare, le case, i ristoranti e le sale da festa erano circondate da dune di sabbia, campi coltivati e grandi serre.

Prima del 2005, quando le colonie israeliane tagliavano da nord a sud lo spazio fra le due città di Khan Younis e Rafah e la loro costa, l’accesso alle spiagge era limitato dall’autorità militare israeliana e lo sviluppo urbano quasi impossibile. Ciò ha mantenuto l’area di Al Mawasi poco edificata.

IN QUESTI ULTIMI mesi la zona è un tappeto di alloggi improvvisati: una distesa di tende, di misere baracche, di costruzioni precarie di corde, coperte e teli di plastica, di sgangherati banconi dove si vende qualche prodotto. Le persone rifugiatesi in questa piccola area sono difficili da censire, se ne stimano centinaia di migliaia, con bisogni umanitari enormi, come per tutti gli abitanti della Striscia scacciati dalle loro case o sotto assedio. La quasi totalità dei due milioni di abitanti sono ora Idp – internally displaced people – ovvero sfollati interni.

Durante l’intera giornata, lungo la strada costiera Al Rashid, sulle stradine sabbiose, negli anfratti polverosi tra le tende, una vasta umanità cammina in ogni direzione, si sposta in carretti trainati da asini smunti o dentro auto sovraccariche che raschiano la polvere. Si notano sempre degli adulti trasportare taniche, spessissimo bambini e bambine scalzi che trascinano bottiglioni e contenitori per l’acqua.

L’acqua potabile viene distribuita da varie organizzazioni, ogni giorno; tra queste Medici Senza Frontiere (Msf) distribuisce quasi quattro milioni e mezzo di litri a settimana. Lefonti sono vari centri di desalinizzazione. Sono gestiti dall’azienda municipalizzata Cmwu, da privati come l’azienda Eta, dalla stessa Msf che ha installato sistemi di dissalatori nei pozzi in prossimità dei centri di salute.

La spesa è ingente perché altissimo è il costo del carburante per i mezzi di trasporto e per i generatori che fanno funzionare filtri e pompe. Una quantità minima, dando priorità alle attività medico-umanitarie, viene affannosamente fornita dall’Unrwa: l’agenzia Onu per i rifugiati palestinesi, con le sue fondamentali attività di sostentamento, è stata messa al bando la settimana scorsa dal parlamento israeliano facendo temere pesantissime conseguenze sulla popolazione palestinese.

IL CONTROLLO ISRAELIANO sulle forniture di carburante determina regolari e calcolate carenze, provocando diminuzioni delle forniture essenziali e un prezzo al mercato (nero, il solo esistente) di circa 14 dollari al litro (almeno per questa settimana) e di 120 dollari al litro per l’olio motore.

Una volta lasciate le fonti d’approvvigionamento, gli automezzi carichi si recano ai punti selezionati. Essendo bloccata l’importazione di cisterne e serbatoi dove effettuare un rapido travaso, la distribuzione avviene solo tramite i rubinetti delle autobotti stesse, dilatando così i tempi e riducendo le rotazioni giornaliere possibili.

Attorno ai camion cisterna c’è sempre una folla che circonda i rubinetti, nonostante la distribuzione nello stesso punto si ripeta anche tre volte nella medesima giornata. L’atmosfera cambia da momento a momento: bambini fradici dalla testa ai piedi che si allontanano sorridenti e complici trasportando una pesante tanica gialla, un uomo che porta via un pesante bidone sulla sedia a rotelle di un parente, mamme con i figli silenziosi abbracciati ai bottiglioni, giovani urlanti che incitano i vicini a uscire all’arrivo della cisterna, persone litigiose che temono di non riuscire a riportare a casa, o nella tenda, i litri necessari.

Un gruppo di palestinesi sfollati di Rafah attende la distribuzione dell'acqua da parte di un team di Medici Senza Frontiere (foto Msf)
Un gruppo di palestinesi sfollati di Rafah attende la distribuzione dell’acqua da parte di un team di Medici Senza Frontiere (foto Msf)

Prima di quest’ultima campagna militare l’acqua nella Striscia di Gaza proveniva al 12% dalla azienda israeliana Mekorot e all’81% da falde acquifere. La compagnia israeliana ha ridotto l’erogazione e la quasi totalità delle condutture palestinesi ormai non sono più operative: si stima che due terzi dei pozzi siano stati distrutti o danneggiati dagli israeliani o siano inattivi a causa della mancanza di elettricità per le pompe. Le grandi cisterne di stoccaggio sono state quasi tutte danneggiate o distrutte anch’esse. Oltre all’acqua potabile e domestica per la popolazione, l’esercito israeliano ha colpito la fornitura dell’acqua da irrigazione proveniente da pozzi di medie e piccole dimensioni e che innaffiava campi e serre.

L’IMPATTO di queste operazioni militari è evidente quando si osserva l’area sud-orientale della Striscia. Entrando dal valico di Kerem Shalom, o Karem Abu Salem in arabo, attraversata una distesa di materiale da settimane sotto il sole in attesa di esser trasportato, si entra formalmente nella zona palestinese. Mentre in lontananza si scorgono vagamente le prime case distrutte, la prima immagine che gli occhi incontrano sono delle sagome attorcigliate che sbucano dal suolo, plastica nera che si impenna e si contorce uscendo dal terreno spoglio. Queste tubature strappate e spezzate testimoniano la presenza di campi devastati, attraversati da cingoli e ruspe israeliani in una metodologica distruzione, e infine uccisi dall’aridità, un’aridità che racconta anche l’abbandono forzato dei contadini che li lavoravano.

Gli agricoltori di quella zona hanno ricevuto ordini di evacuazione, hanno visto i loro terreni trasformati in una cosiddetta zona militare larga un chilometro lungo la frontiera orientale. Alcuni sono stati uccisi mentre vi si recavano nei primi giorni dell’attacco.

NESSUN RIFORNIMENTO d’acqua viene fatto entrare nella Striscia di Gaza. La popolazione urbana del nord e del sud, sotto quotidiani bombardamenti, oggi non ha nessuna fonte idrica sicura mentre quella sfollata al centro sopravvive con livelli allarmanti di acqua pro-capite fornita solo da piccoli pozzi domestici o dalla faticosa distribuzione delle organizzazioni umanitarie. Anche la terra subisce la violenza metodica della guerra e della privazione idrica: i dati raccolti fino a luglio parlano di più di quattro quinti di vegetazione distrutta. Da bene primario per gli esseri umani, i campi, la vegetazione e gli animali, l’acqua si è trasformata in arma contro la popolazione e contro l’ambiente.

*Logista di Medici Senza Frontiere

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