La voce delle armi e il silenzio dei popoli
Il limite ignoto Questo clima legittima regressioni nella garanzia dei diritti sociali e di libertà
Il limite ignoto Questo clima legittima regressioni nella garanzia dei diritti sociali e di libertà
Un silenzio colpisce, dopo un anno di guerra in Ucraina: non si sente la voce di chi vive nelle città devastate, nei paesi distrutti, sotto le bombe, di chi è mandato a combattere, di chi vorrebbe riflettere e contestualizzare la guerra nella prospettiva della complessità (Morin, Di guerra in guerra, 2023), dello Statuto delle Nazioni Unite che condanna il «flagello della guerra», della Costituzione che «ripudia la guerra». I sondaggi raccontano di un’opinione pubblica contraria a proseguire l’escalation, ma passano sotto silenzio; di cosa pensano gli ucraini si conosce pochissimo, come della dissidenza russa; il movimento pacifista, al di là della bella manifestazione del 5 novembre, non riesce ad alzare abbastanza la voce.
Rimbombano, invece, in una informazione embedded, i toni eroici di Zelensky in visita dai “grandi” del mondo, si racconta del pellegrinaggio di capi di Stato e governo in Ucraina (ultimi Biden e Meloni), siamo inondati dai nomi di mezzi bellici: carri armati Abrams e Leopard 2, lancia razzi Himars, droni Bayraktar TB2 (per inciso, continuiamo però a restare all’oscuro circa le armi inviate dall’Italia).
All’inizio era la reazione all’aggressione, ora la vittoria, entrambe ammantate di difesa della libertà: a mancare è la ricerca della pace, mentre il mondo si arma sempre più e la democrazia si militarizza. Si sente sulla libertà di pensiero la chiusura della democrazia, anche in questo momento, quando, mentre scrivo, penso di dover inserire una condanna dell’aggressione e ribadire il carattere autoritario del regime di Putin: lo posso fare, ritengo sia così, ma questa è solo una parte del discorso.
La guerra (peraltro mai scomparsa dallo scenario globale) è normalizzata; discorriamo di carri armati e missili, di bombe tattiche e strategiche, come oggetti qualsiasi, non come strumenti di distruzione e violenza; assistiamo immobili al profilarsi dell’olocausto nucleare (e intanto la recente sospensione russa del trattato New Start sul disarmo nucleare sposta ancora in avanti le lancette dell’orologio dell’apocalisse degli scienziati atomici). I morti in guerra compaiono solo a tratti, per legittimare e sostenere la continuazione della guerra, ma il tempo che passa iberna il senso di empatia e favorisce un processo di disumanizzazione, come accade per i morti in mare o per le violenze ai confini.
La guerra come continuità e banalità del male nella sua corporea materialità tende a scomparire dietro un’astratta retorica eroica e, allo stesso tempo, si fa presenza quotidiana.
Ci abitua a ragionare in termini di amico-nemico, ad entrare in una logica bellica, alleata di un nazionalismo identitario ed escludente. La pace è vittoria, non si negozia. Non è difficile scorgere un parallelismo con una democrazia dove decide chi vince, senza mediazione politica; con un modello che nega il conflitto segnando la supremazia di una classe; con una società dove chi è povero è colpevole perché ha perso la sua corsa come imprenditore di se stesso.
La pace come vittoria in una semplificazione Bene e Male, incurante delle vite che macina, è una pace giusta? O è una pace che sa di strumentalizzazione, di volontà di dominio?
La Nato chiede di aumentare le spese militari al 2%, e poi ancora: è in gioco una ristrutturazione geopolitica ed economica. Non solo. Da un lato, è la competizione strutturale e fondante il neoliberismo che si fa più violenta ed aggressiva; dall’altro, si profila la deriva autoritaria di un mondo dove gli effetti devastanti del riscaldamento climatico e della diseguaglianza sociale (al neoliberismo imputabili) divengono viepiù esplosivi. Il nemico è Putin, ma è anche chi si ribella all’ingiustizia sociale e ambientale, con il suo esistere (il migrante, il povero), con le sue azioni (chi critica, dissente e disobbedisce).
I Leopard che si aggirano per le strade ucraine agitando la bandiera della libertà (in Ucraina, peraltro, da costruire) sperimentano la difesa dei confini dell’Occidente, come dei centri delle città, di una libertà ridotta a privilegio di pochi? Ci abituiamo a vivere senza diritti: terrorismo, crisi economica, guerra hanno legittimato regressioni nella garanzia dei diritti sociali e restrizioni nel godimento dei diritti di libertà, che si fanno permanenti in un tempo governato dall’emergenza e dal presente.
Eppure forse aleggia ancora qualcosa dell’«ispirazione comune», dell’«esigenza da tutti sentita di condannare la guerra» (Ruini, Assemblea costituente, 24 marzo 1947) cercando la pace: è un sentire disorientato, frammentato, sfibrato. Istruirsi, organizzarsi ed agitarsi è ancora la via, necessaria.
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