Visioni

La vita tra le tracce, Martone e l’eredità di Massimo Troisi

La vita tra le tracce, Martone e l’eredità di Massimo TroisiMario Martone e Massimo Troisi – foto di Fabrizio Di Giulio

Berlinale 73 Presentato nella sezione Special «Laggiù qualcuno mi ama», dal 23 febbraio nelle sale. L’ironia, le passioni, il lavoro dell’artista napoletano

Pubblicato più di un anno faEdizione del 18 febbraio 2023

Tutto comincia diversi anni fa con un incontro sul set de Il Postino dove lavorava anche Anna Bonaiuto, allora la sua compagna. Una lunga chiacchierata, molta stima, il desiderio di ritrovarsi per fare qualcosa nel futuro. Massimo Troisi però muore prima che il film dal libro di Antonio Skármeta sia finito – dello scrittore cileno ieri al Forum è passato il film da regista, Aufenthalserlabnis (1978), girato nell’esilio berlinese. Troisi, che ne era il protagonista, lo aveva fortemente voluto anche se non diretto – la regia è infatti di Michael Radford – rimandando persino l’operazione al cuore, che forse gli avrebbe permesso di vivere, alla fine delle riprese.

«È COME se questo sia il film che non abbiamo mai potuto fare insieme» dice Mario Martone nell’incontro mattutino berlinese. Laggiù qualcuno mi ama, che è stato presentato ieri in Berlinale Special, uscirà in sala dal 19 in alcune città e il 23 in tutta Italia, e al di là dell’«occasione», i settant’anni dalla nascita di Troisi, nella regia di Martone – che ci tiene a specificare ha voluto per sé anche il montaggio orchestrato con grazia da Jacopo Quadri – si fa narrazione di un artista e del suo tempo, dei desideri di una generazione giovane negli anni Settanta, delle sue lotte sussurrate con ironia, dei suoi sogni, passioni, amori, legami e fughe. La Napoli la cui mitologia quel ragazzo riccioluto contesta con la risata fino a farsela diventare un incubo di «pizza-pasta-mandolino» che tutti si aspettano. Le battute entrate nel linguaggio comune – «Annunciazione annunciazione» o il gioco sui nomi dei bambini – le sue figure femminili forti, e reali, che affermano nelle proprie scelte la sensibilità e le battaglie femministe del momento, le relazioni amorose che sono più complesse e indefinibili di quanto piace sullo schermo. E il successo, la timidezza, le eredità importanti – Eduardo, Totò – di cui Troisi si schermisce: «Loro hanno lavorato trenta, quarant’anni…» dice. Gli incontri, gli amici, i complici come Pino Daniele – anche lui col cuore malato – e Maradona che abbraccia, icone di una città intera. Gli scritti su di lui, i libri, le critiche le accuse, Sanremo che rifiuta perché non voleva farsi controllare i testi (l’immobilità dell’Ariston…). «Massimo era un ribelle, teorizzava un personaggio che non deve mai piegarsi. Nonostante fosse un attore amatissimo, che ha saputo comunicare con le persone come nessun altro, questa sua schiena diritta non l’ha mai abbandonata. Faceva quello che voleva, per me in questo senso è un autore Nouvelle vague. Lo è per il disagio che portava nel suo agire di artista, qualcosa di profondo e di bello, e per come tutti i suoi temi si riflettono nella sua ricerca formale, nel modo in cui girava».

Nonostante fosse un attore amatissimo, che ha saputo comunicare con le persone come nessun altro, la schiena diritta non l’ha mai abbandonata Mario Martone
La vita al lavoro, dunque. Che il punto di partenza per avventurarsi nell’universo poetico (e politico) dell’artista di San Giorgio a Cremano – dove è nato il 19 febbraio 1953 – prima della cronaca più o meno «privata» sono le immagini, i suoi film soprattutto, quelli da regista – da Ricomincio da tre (1981) a Pensavo fosse amore… invece era un calesse (1991), e quelli come attore – Che ora è di Scola, Hotel Colonial di Cinzia Torrini: un’esperienza di autore e interprete, corpo delle proprie immagini, che è una caratteristica importante. A accompagnare Martone, che entra anche in campo in una declinazione eclettica e “rivelata” del documentario,, ci sono figure ricorrenti a cominciare da Anna Pavignano (anche autrice con lui della sceneggiatura e del soggetto), torinese, femminista, compagna a lungo di Troisi che con lei ha scritto i suoi film. E poi Goffredo Fofi, Sorrentino, Ficarra e Picone …
È proprio grazie a Anna Pavignano che Martone ha avuto accesso ai preziosi foglietti – le cui righe vengono lette da diversi atotri come Roberto De Francesco e Lino Musella – su cui Troisi sin da piccolissimo annotava le sue idee. Frasi,pensieri, timori, insieme alle pagine dell’agenda intime, segrete, nei giorni della sua prima operazione al cuore. La vita affiora lì, tra queste tracce, nei ricordi di bambino che per farsi notare dal padre salta in una pozzanghera, nelle finte sedute psicanalitiche con Anna – registrate su vecchie cassette.

E SI INTRECCIA al suo tempo, che Troisi vive, esprime, appunto, nella Napoli di conflitti sociali e movimenti di quegli anni settanta e poi ottanta, in cui le voci si moltiplicano e l’arte si fa terreno di resistenza – da Neiwiller a Moscato allo stesso Martone. È questo intreccio coi suoi detour a declinare il film al presente: è la vitalità di Troisi, la sua meraviglia, la sua energia che Martone sa restituire, mettendosi all’ascolto e provando a cogliere dei punti in comune – senza mai forzare, a chi gli chiede risponde: «Forse è lo stesso amore e sentimento di distanza che proviamo». Al contrario della celebrazione il suo modo di portarci dentro al mondo di Troisi ne sottolinea la freschezza sempre attuale, la contemporaneità dello sguardo e dei suoi interrogativi, la capacità di sorprendere – viene voglia di rivedere i suoi film – accompagnandolo con cura e con amore.

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