La vita come un archivio che mescola confini
Dentro al padiglione della Francia ai Giardini (particolare), Zineb Sedira «I sogni non hanno titoli» – Foto di Matilde Cenci
Cultura

La vita come un archivio che mescola confini

59/a Biennale d'arte di Venezia Nel padiglione francese, l'Algeria colonizza l'immaginario dell'ex paese colonizzatore nel magnifico progetto di Zineb Sedira, «I sogni non hanno titoli»
Pubblicato più di 2 anni faEdizione del 24 aprile 2022

È un serio gioco di scambi, incroci, mise en abyme, quello che accoglie chi visita il padiglione francese della Biennale arte. È l’opera Les rêves n’ont pas de titre (i sogni non hanno titoli) dell’artista franco-algerina residente a Londra Zineb Sedira, a cura di Yasmina Reggad, Sam Bardaouil e Till Fellrath, meritatamente una delle menzioni speciali di quest’anno («Come riconoscimento e gratitudine per lo scambio di idee e la solidarietà, come l’idea di costruire comunità nella diaspora. Per aver esaminato la complessa storia del cinema oltre l’occidente e le molteplici storie di resistenza nel suo lavoro»). Un omaggio al cinema dunque, un viaggio che, con una lente personale e autobiografica, ci restituisce pezzi di attraversamenti tra Francia, Algeria, Gran Bretagna, e un po’ d’Italia.

ENTRANDO, si è accolti dalla scenografia ricostruita del film italo-algerino Le bal di Ettore Scola, con tanto di danzatori in carne ed ossa. In quest’opera multimediale e immersiva ci sono anche scenografie tratte da F come falso di Orson Welles, che fa da cornice all’intera storia, e poi altre produzioni italo-algerine, La battaglia di Algeri di Pontecorvo e Lo straniero di Visconti. Nelle prime tre sale, oltre alle scenografie ricostruite, troviamo tantissimi materiali (manifesti, libri, volantini, riviste) relativi alla fine della decolonizzazione e soprattutto al clima di internazionalismo e terzomondismo che ha proprio in Algeri, alla fine degli anni 60, il centro principale.

IN TUTTO QUESTO, Sedira – prima franco-algerina a rappresentare la Francia in laguna, 60 anni dopo l’indipendenza – inserisce sé stessa: una sala ricostruisce proprio la sua casa londinese, luogo di accumulo di tracce e storie, dal suo processo di migrazione al di là della manica a un arazzo che era a casa dei genitori ad Algeri. E all’interno di queste sale Sedira gira il corto di 25 minuti che chiude il padiglione, proiettato in una sala ispirata a un piccolo cinema d’epoca, e composto in larga parte dalle scene rimesse in scena dei film già citati. Il padiglione quindi si configura come uno spazio che ne ricrea altri. A terra ci sono con lo scotch i segni per le posizioni degli «attori», la messa in scena è dichiarata, esplicitata. Gli attori sono i suoi amici e gli stessi curatori, attingendo a quello che sta intorno a lei.

LA VITA DUNQUE come archivio, ma anche l’archivio si fa vita. C’è infatti una solida ricerca dietro alla costruzione di questo padiglione, con viaggi in archivi e studio di materiale dell’epoca. Nel suo film, Sedira usa in particolare Les Mains Livres di Ennio Lorenzini, un film conservato all’Aamod di Roma (e incompleto al Centre Algérien de la Cinématographie), quasi mai visto per decenni e che sta avendo una nuova vita, con tanto di restauro che verrà presentato in estate e volume critico. Il film di Lorenzini (prodotto dalla Casbah film, come quelli di Pontecorvo e Visconti) puntella il cortometraggio di Sedira: è proprio su una delle prime scene del film del 1964, il ritorno degli algerini di Francia nella patria finalmente indipendente, che Sedira inserisce, giustapponendosi alle immagini, sé stessa che emigra in Gran Bretagna. Autobiografia dell’artista, autobiografia della (o meglio, delle) nazioni. Non solo infatti Les rêves n’ont pas de titre è un’opera transnazionale, ma un lavoro che fa della solidarietà internazionalista e degli scambi transnazionali la sua ragion d’essere. Verrebbe da dire che c’è poca Francia, in un padiglione francese, e la sfida sembra essere proprio quella di andare oltre e questionare i confini dell’esagono – ma forse, i confini in generale.
In una biennale molto postcoloniale e in (apparente, tentata) decolonizzazione, ci pare che questo padiglione sia uno degli esperimenti più riusciti, proprio perché si sottrae a un intento politico esplicito, evita sensi di colpa e washing vari, e mostra gli effetti di questi continui scambi tra culture.

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