Visioni

«La vita accanto», la battaglia per essere madre fra nevrosi e un amore maldestro

«La vita accanto», la battaglia per essere madre fra nevrosi e un amore maldestroSonia Bergamasco e Beatrice Barison in una scena di «La vita accanto» di Marco Tullio Giordana

Locarno 77 Fuori concorso il film di Marco Tullio Giordana, una riflessione sulla condizione della maternità

Pubblicato 3 mesi faEdizione del 13 agosto 2024
Luca MossoLOCARNO

Una bambina nasce con un segno rosso sul volto e quello che un tempo sarebbe stato riconosciuto come un sigillo demoniaco o, almeno, una voglia di implicita perversione, negli anni ottanta del secolo scorso in cui è ambientato La vita accanto passerebbe per una imperfezione tranquillamente trascurabile. Per tutti è così, tranne che per la madre Maria (Valentina Bellè) che focalizza sull’angioma della figlia tutte le sue nevrosi e allestisce a beneficio della piccola Rebecca un piccolo inferno domestico fatto di immotivate paure e di esplosioni d’amore mal indirizzate. Alla base di tutto c’è una radicata inadeguatezza alla maternità – madri non si nasce, ma si diventa al termine di un percorso di crescita anche culturale – e un’ostilità ambientale sottile e radicata di cui sono ugualmente artefici e complici il marito Osvaldo (Paolo Pierobon) con la sua sorella gemella Erminia (Sonia Bergamasco), la cui intesa profonda rivela nel corso del film risvolti dettagli morbosi.
Tratto dal romanzo La vita accanto di Mariapia Veladiano (Einaudi) di cui però ribalta il punto di vista, il film si appoggia su una sceneggiatura che Marco Bellocchio scrisse qualche anno fa, prima di abbandonare il progetto e quindi ritornarci in veste di produttore con la Kavac (e la IBC di Beppe Caschetto).

SE L’IMPRONTA bellocchiana non potrebbe essere più evidente nella costruzione dei personaggi, con una madre patologica incapace di indirizzare in modo costruttivo il suo affetto, due gemelli legati da pulsioni inconfessabili, una balia schiacciata tra ruolo professionale e sensibilità personale, oltre che nell’atmosfera vagamente soffocante della provincia dominata da una borghesia mai all’altezza del suo ruolo storico, va detto che l’attitudine melodrammatica di Marco Tullio Giordana dona al film languorosi abbandoni e alcune sequenze misteriose davvero efficaci. Le pulsioni suicidarie di Maria sono descritte con una combinazione di dolore e voluttà che Valentina Bellè interpreta con grande consapevolezza e controllo, salvaguardando il centro di indicibilità degli atti estremi: è anche grazie alla sua interpretazione che il film non si lascia ridurre a formula o a giudizio. Peccato solo che l’apertura al gruppo dei giovani compagni di conservatorio di Rebecca della parte finale fatichi a trovare il tono giusto e che in questo modo si sacrifichi a un aggiornamento tematico non necessario l’esemplare unità stilistica tenuta dal film fino a quel momento.

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