«Com’è oggi l’acqua?». Chiede un pesce a un suo simile che gli passa accanto. «Quale acqua?», risponde quell’altro. Dopo aver trascorso una giornata a discutere su Twitter di neoliberismo, ci si sente un po’ come i pesci dell’apologo di David Foster Wallace . «Neoliberismo? E che cos’è il neoliberismo?». Il fatto di esservi immersi da anni porta a negarne l’esistenza.

Qualche giorno fa la ricercatrice Stella Morgana, da anni impegnata a studiare l’Iran, ha osato sostenere che anche il paese degli ayatollah fosse investito dalle politiche neoliberali che hanno attraversato il pianeta nel corso dell’ultimo trentennio. Apriti cielo: la minoranza rumorosa e aggressiva di Carlo Calenda e dei suoi fan su carta stampata e social network si sono avventati sul profilo Twitter di Morgana, accusandola di ogni nefandezza. Domenica scorsa, dalle colonne di questo giornale, Chiara Cruciati ha tenuto il punto e ricordato come la controrivoluzione neoliberale da anni ridisegni la geografia politica e sociale del Medio Oriente. Riecco frotte di pasdaran del libero mercato pronti a difendere l’ortodossia della concorrenza perfetta. Il fatto che di «neoliberismo» non si debba neanche parlare rivela sindrome dell’assedio in cui vivono alcuni quando si prova a sprovincializzare il dibattito. Identificare una corrente di pensiero, in effetti, significa caratterizzarla in quanto ideologia e non come ordine naturale delle cose da dare per scontato.

Di più: nel dibattito pubblico un po’ allucinato di questo paese, «neoliberismo» viene considerato ormai una specie di sinonimo di liberalismo. «Non è possibile – recita il tormentone dei liberali da social – che si attuino politiche neoliberiste in paesi autoritari!» per di più «in cui lo stato interviene nell’economia». Eppure dovrebbero aver letto von Hayek, quando diceva che tra una democrazia ostile al mercato e un regime aperto alla concorrenza avrebbe preferito il secondo. O il Chicago boy Milton Friedman, che aveva individuato il Cile di Pinochet come laboratorio ideale del neoliberismo. Lo intuì Antonio Gramsci col fascismo alle porte, e dopo di lui lo fecero il Karl Polanyi della grande trasformazione e Stuart Hall analizzando l’avvento del thatcherismo: lo Stato con il suo apparato repressivo può divenire una articolazione di competizione e sfruttamento, non un argine. Ma non ditelo ai neoliberisti di casa nostra: gli leggerete il terrore negli occhi.