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Gli sfollati di Beirut incollati alla tv. Tifo da stadio per l’attacco

Gli sfollati di Beirut incollati alla tv. Tifo da stadio per l’attacco

Escalation per l'inferno Finito tutto cala il silenzio, ci si siede con i propri amici. Chi si era fermato per vedere se ne va, tra materassi bagnati e tende improvvisate

Pubblicato circa 4 ore faEdizione del 2 ottobre 2024

Mani nei capelli, tifo da stadio, invocazioni ad Allah. La parte di Beirut che vive nella paura da settimane esulta a ogni ordigno iraniano che si abbatte su Tel Aviv. Sono le 19.45 nella capitale libanese, di ritorno dal sud uno dei primi bar che incontriamo fuori dalla superstrada è gremito come se stessero trasmettendo la finale dei mondiali. Gli occhi fissi sul televisore, il fiato sospeso quando le scie dei missili degli Ayatollah appaiono sul cielo della capitale israeliana. «400 missili» ci dice un ragazzo in francese, «quat-tro-cento!».

HAARETZ scrive di circa 100 missili e quando Al Jazeera in arabo trasmette il video messaggio del portavoce delle forze armate israeliane Hagari che dice agli abitanti di Tel Aviv di non uscire dai rifugi scatta un tripudio di insulti.
È presto per dire se l’Iran abbia firmato la sua condanna a morte, ma mentre alla tv i missili che l’Iron Dome israeliano non riesce a neutralizzare in aria di abbattono sui palazzi in lontananza possiamo già dire che siamo a una svolta storica.
Alle nostre spalle, mentre i commentatori televisivi azzardano previsioni, una bambina piange incessantemente. La madre la culla tra le sue braccia ma piove e le gocce contribuiscono a innervosire la piccola. Per calmarla la madre va a prendere il ciuccio che si trova sotto un telo teso tra un segnale stradale, una palma e una transenna. Vivono lì, sono gli sfollati dei quartieri musulmani di Beirut o degli insediamenti del sud che si sono accampati sul lungomare perché qui non c’è niente da bombardare. A poca distanza un anziano dorme incastrato tra il cambio e lo sterzo mentre le due figlie scaldano dell’acqua su un fornello da campo.

LE BOMBE iraniane riscatteranno questa miseria? O decenni di campi profughi nel sud del Libano? No di certo. Chi esulta è uguale a chi esultava per l’uccisione di Nasrallah insieme ad altre decine di civili, a chi invocava la distruzione di Gaza, a chi non vede l’ora di spianare il Libano meridionale e, perché no, Teheran. Non è relativismo, non si tratta di giustificare, ma solo di aprire gli occhi sulle conseguenze della guerra. O meglio, su ciò che uno stato permanente di conflitto fa alle persone. Si perde la possibilità di vivere dignitosamente e si è costretti a vivere per terra sui materassi di gommapiuma fradici, si sottopongono bambini e persone fragili a sofferenze quotidiane che abbrutiscono e privano di ogni gioia.

A POCA DISTANZA dal locale per poco non investiamo un ragazzino, cammina sul ciglio della strada sbandando, in mano tiene un cavo della media tensione su cui qualcuno aveva messo del nastro adesivo giallo perché di notte non diventasse una trappola. Il ragazzino fa su e giù dal marciapiede trascinando il pesante cavo e dando delle frustate isteriche di tanto in tanto. Ci fermiamo a parlargli, non risponde. Lo seguiamo per un po’ con i fari accesi per evitare che qualcun altro lo investa, non si volta a vedere chi siamo e perché ci sono quelle luci, non cambia passo e non fa nulla. Quando giunge a una curva con uno spartitraffico di cemento lascia il cavo di scatto e salta via.

La perdita di umanità non è un concetto. Si vede tra le strade di migliaia di città del mondo funestate dalla fame o dalla guerra. A Beirut ogni deviazione da una grande arteria verso ovest è piena di filo spinato che sta lì arrotolato o sparso disordinatamente chissà da quanto. Filo spinato sui muri e agli angoli e cartone per terra. Sul cartone si dorme, ma per l’antico proverbio anche su quelli piove. Un milione di sfollati per molti sarà solo un numero, un numero molto grande certo, ma basta camminare da una parte all’altra della capitale libanese per vedere le code di furgoni stipati fino a far toccare la lamiera sui copertoni, di macchine arrugginite e di carrette improvvisate. Chi ha deciso che la Siria sarà più sicura del Libano dovrà affrontare una nuova realtà da profugo, l’ennesima in una terra che non conosce pace da oltre 70 anni.

QUANDO IL TELEGIORNALE annuncia che il bombardamento è finito quell’euforia forse generata da una istintiva sensazione di riscatto svanisce. Nei diversi capannelli si fanno valutazioni tecnico-balistiche, si afferma ringrazia l’ayatollah o (questo sempre) si invoca Allah. Poi però cala il silenzio, tutti tornano a sedersi con i propri amici, chi si era fermato per vedere se ne va. È chiaro già poco dopo le 21 che non si trattava di una finale, né tantomeno di una vittoria, ma solo dell’ennesimo passo verso il baratro. Ora Beirut trema per il vento umido del mare che sferza i ripari bagnati dalla pioggia. Ma trema ancora di più perché sa che Israele reagirà duramente e la giostra della morte riparte ancora una volta, sempre più rapida, sempre più inarrestabile.

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