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La via della politica contro l’eterna caccia alle risorse

La via della politica contro l’eterna caccia alle risorse

Crisi in Venezuela Si conferma che in ballo non vi sono concetti astratti di democrazia e difesa dei diritti dell’uomo, quanto il controllo delle enormi riserve del Venezuela sia in petrolio e gas, sia in minerali rari. Oltre alla indubbia sovranità nazionale, il bene più prezioso secondo il defunto presidente Hugo Chavez

Pubblicato 3 mesi faEdizione del 13 agosto 2024

Pubblicate gli atti «disaggregati e verificabili» delle elezioni del 28 luglio. Questa continua a essere la base della mediazione proposta – con maggior insistenza – dal presidente brasiliano Lula e appoggiata dal colombiano Petro e dal messicano López Obrador (Amlo). Per cercare di risolvere la crisi post-elettorale del Venezuela.

Si tratta però solo della punta dell’iceberg dell’intervento proposto da Lula. La vera sostanza della mediazione prevede un dialogo tra il vertice politico bolivariano e l’opposizione del Pud, o parte di essa, per una transizione che porti a una partecipazione dell’opposizione al governo del Venezuela.

Solo attraverso questa via politica si può, secondo Lula, evitare che la crisi del Venezuela evolva in una sorta di guerra civile, con l’inevitabile intervento esterno (mediante mercenari o meno) per abbattere con la forza il quasi trentennale governo chavista del Venezuela. Tale possibile evoluzione della crisi venezuelana è il vero incubo dei tre presidenti, Lula, Petro e Amlo: avrebbe conseguenze catastrofiche per tutta l’America latina.

La questione della pubblicazione dei voti, dicevamo, è solo la punta dell’iceberg della crisi venezuelana. In realtà, il presidente Maduro in qualche modo ha reso pubblici i dati affidandoli al Tribunale supremo di giustizia (Tsj) che deve appunto controllare il corretto andamento delle presidenziali, dunque i voti e come sono stati registrati. Il Tsj viene però considerato asservito al governo dall’opposizione – che non ha presentato al Tribunale gli atti elettorali in suo possesso – e dai suoi veri alleati: gli Usa, parte dell’Ue e la grande maggioranza dei mass media internazionali. I quali considerano «credibili» i dati di circa 24.000 sezioni elettorali (su poco più di 30.000) messi in rete dall’opposizione e che accreditano una netta vittoria del candidato di quest’ultima, Edmundo González.

In realtà anche questi dati contengono, secondo organizzazioni che li hanno controllati, non poche violazioni agli standard riconosciuti internazionalmente – mancanza dell’hash o codice delle macchine che li registrano, mancanza dei nomi della commissione elettorale, voti di persone defunte. Quello che invece testimoniano chiaramente è l’appoggio che l’opposizione ha avuto da una parte della burocrazia chavista che, per vari motivi, ritiene che vi debba essere un ricambio alla presidenza del Venezuela.

In questo senso il segnale è arrivato forte e chiaro a Maduro. Non solo il bacino elettorale dell’opposizione ma anche una parte di quello che viene definito il chavismo lo ha sfiduciato. Per questa ragione, assieme alla difesa della legittimità della «sua» vittoria elettorale, ha annunciato un vasto programma di riforme. Con un duplice obiettivo, da una parte recuperare la fiducia e il sostegno della vecchia base chavista e dall’altra prospettare un accordo con gli Usa mediante concessioni alle multinazionali del Nord. Sempre però sulla base del controllo del vertice bolivariano sulla sovranità nazionale del Venezuela.

In definitiva, si conferma che in ballo non vi sono concetti astratti di democrazia e difesa dei diritti dell’uomo, quanto il controllo delle enormi riserve del Venezuela sia in petrolio e gas, sia in minerali rari. Oltre alla indubbia sovranità nazionale, il bene più prezioso secondo il defunto presidente Hugo Chavez.

Buona parte di chi rivendica la vittoria elettorale di Edmundo González (che dovrebbe poi cederla alla vera leader dell’opposizione, María Corina Machado) in realtà si esprime a favore di un cambiamento dei rapporti di forza in Venezuela e nell’intero subcontinente. Le cui conseguenze sono difficili da prevedere. E che giustificano la prudenza della stessa diplomazia degli Stati Uniti.
Fino a quando regge l’alleanza bolivariana tra Maduro e le Forze armate e della sicurezza – alleanza rinnovata di recente dal ministro della difesa Vladimir Padrino – è difficile pensare che l’opposizione sia in grado di forzare cambiamenti al vertice mediante proteste di strada. Lo dimostra la dura repressione attuata contro le manifestazioni dell’opposizione che ha causato più di mille arresti e 24 vittime.

Le “truppe” di Corina Machado sono soprattutto all’estero. Ed è in questa direzione che volge i suoi sforzi per delegittimare sia Maduro che le istituzioni bolivariane che ne hanno decretato la vittoria. Dunque, molto dipenderà dall’esito delle presidenziali negli Usa. Anche in questa direzione guarda la mediazione di Lula, Petro e Amlo.

La sinistra, o meglio le forze progressiste latinoamericane, guardano alla crisi in Venezuela con un’ottica di politica interna. Le destre del subcontinente si sono schierate apertamente a sostegno di González. E come prova di democrazia dei governi in carica, chiedono a gran voce che venga riconosciuta la sconfitta del «dittatore« Maduro. È in questo contesto che si manifesta il prestigio di Lula – e dei suoi alleati colombiani e messicani- che propone di mettere la crisi venezuelana nei binari di un dibattito politico che riguarda tutto il subcontinente. Più debole all’interno, il presidente cileno Gabriel Boric si è subito schierato con l’opposizione venezuelana, rivendicando per il Venezuela quel rispetto dei diritti umani che sembra restio a concedere al popolo mapuche.

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