«Nel contenuto e nella forma, il progetto politico del presidente Javier Milei è il tentativo di instaurare in Argentina un regime autoritario e autocratico. Si tratta di una riforma costituzionale reazionaria encubierta (sotto copertura)». Questa è la piattaforma politica dello sciopero generale nazionale indetto ieri dai sindacati e da una serie di movimenti e gruppi argentini che si battono per i diritti dell’uomo, come le madri di piazza de Mayo.

Si tratta dunque di uno scontro radicale contro un progetto di capitalismo selvaggio – lo stesso proposto da Milei nel suo intervento al recente forum di Davos – sul quale sono puntati gli occhi preoccupati delle sinistre e dei movimenti progressisti latinoamericani.

In poco meno di un mese dopo aver assunto la presidenza – lo scorso 10 dicembre – Milei ha infatti proposto prima il Decreto de necesidad y urgencia (Dnu), che contiene la modifica o l’abolizione di più di 300 leggi relative a diversi settori dell’economia (affitti, pensioni, gestione delle terre, produzione statale di farmaci, energia, distribuzione di generi di prima necessità, garanzie di protezione dell’industria nazionale, tra molti altri).

In sostanza di una radicale deregulation dell’economia argentina che favorisce i monopoli internazionali e locali. Poi, a soli dieci giorni di distanza, al Dnu è seguita la cosiddetta «legge Omnibus». Anche in questo caso si tratta di un pacchetto di centinaia di leggi – circa 600 articoli definiti «Punto di partenza per la libertà degli argentini» – che riguardano l’emergenza pubblica in materia di economia, finanza, fisco, sicurezza, difesa, energia, sanità, amministrazione e società. Emergenza prevista fino al 2025, ma che potrà essere prolungata per altri due anni.

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In sostanza, la legge garantisce al presidente, e per tutta la durata del suo mandato, di aggiungere i poteri legislativi a quelli esecutivi, dandogli libertà di governare per decreto.

Quello che si profila è uno Stato ridotto a compiti solo fiscali e di controllo sociale. Il presidente Milei «approfitta del poco prestigio del Congresso e della politica tradizionale per mettere da parte le istituzioni della democrazia liberale e per concentrare nelle sue mani tutto il potere politico», afferma un documento di sostegno allo sciopero firmato da decine di intellettuali, militanti e sindacalisti. Funzionale a questo piano, che prevede la repressione delle proteste e dell’opposizione, il presidente Milei ha proceduto a un rinnovamento del vertice delle Forze armate che «approfondisce ancor di più l’allineamento (dell’Argentina) con gli Stati uniti e Israele e prepara un eventuale scenario repressivo».

Mentre l’Argentina ha conquistato il record mondiale di inflazione con un 211,4 % interannuale – che lascia al secondo posto il disastrato e minacciato Libano (192%) – la «legge Omnibus» era in discussione ieri in parlamento dove «l’opposizione amica», ovvero quella non kirchnerista, proponeva una serie di emendamenti. A contestarla c’erano decine e decine di migliaia di argentini in sciopero, sorvegliati da un imponente schieramento di polizia.

Si tratta di una situazione che spinge l’Argentina verso scenari inattesi in quello che si presenta come uno scontro politico continentale contro un progetto che più che a una società senza Stato aspira al mercato puro, senza società. O a una società nella quale i primi devono essere tali, senza la presenza e la minaccia degli ultimi.

Milei lo ha detto chiaro nel suo intervento a Davos. «L’attuale ordine mondiale non gli sta bene e vuole cambiarlo. Il suo è un progetto di Occidente senza crepe, senza contraddizioni, senza barriere», afferma il professore e analista argentino Miguel Mazzeo. Il «manifesto» politico di Milei a Davos – con i suoi corollari in politica argentina – presenta un’ultradestra meno apatica e scettica del progressismo latinoamericano. Deve dunque far riflettere le sinistre, in un continente che intravvede la possibilità più che concreta che Donald Trump possa essere rieletto alla casa Bianca. E che in vari paesi del Sud – Ecuador, Perù, opposizione colombiana, tra gli altri – fa apertamente riferimento al «modello Bukele», il presidente autocrate del Salvador, celebrato per aver sgominato le pandillas locali senza badare a diritti dell’uomo e famoso anche per la costruzione di un mega carcere sotto controllo militare.

Uno scenario che Cuba guarda con grande preoccupazione. Qui il governo si appresta ad attuare, dall’inizio di febbraio, un pacchetto di riforme ancora non ben precisate «per stabilizzare l’economia». Le misure prevedono aumenti dei prezzi di energia e vari servizi, tagli di sussidi a settori di maggior consumo, un nuovo tasso di cambio per frenare la caduta del peso cubano. Si tratta – come afferma il presidente Díaz-Canel – di misure dolorose, ma «necessarie per preservare il progetto sociale cubano». Progetto minacciato certo anche da errori di politica interna, ma soprattutto dall’ostilità sessantennale degli Usa. E oggi anche dall’ultradestra del subcontinente.