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La verità emotiva, maestra di Paul Auster

La verità emotiva, maestra di Paul AusterEd e Nancy Kienholz, «The Soup Course at the She-She Café», 1982

Scrittori statunitensi Felicemente inattuale, l’ultimo romanzo dello scrittore americano asseconda in uno stile pacato, quasi circospetto, il lutto di un uomo che ha perso la moglie: «Baumgartner», da Einaudi

Pubblicato 11 mesi faEdizione del 19 novembre 2023

Al momento della sua scomparsa, nel 2013, Edward W. Said stava lavorando a uno studio sullo «stile tardo» degli artisti, un linguaggio particolare che «è dentro il presente, ma ne è separato in modo strano». Riprendendo le idee di Adorno a proposito dell’ultimo Beethoven, Said aveva deciso di esplorare alcune «opere tarde» che, se da un lato sembrano riflettere «una particolare maturità, un nuovo spirito di riconciliazione e una serenità, sovente espresso nella miracolosa trasfigurazione della realtà più banale», più spesso implicano «intransigenza, difficoltà e contraddizioni irrisolte». Per Said la «tardività» non è necessariamente associata alla vecchiaia o all’approssimarsi della morte;  è piuttosto un «momento in cui l’artista, pienamente padrone dei suoi mezzi, smette di comunicare con l’ordine sociale prestabilito di cui fa parte, e stringe con esso una relazione contraddittoria e alienata», abbracciando una sorta di esilio volontario dal tempo presente.

Sembrerebbe scritto apposta per venire inserito in questa categoria il nuovo romanzo di Paul Auster, Baumgartner (in uscita martedì da Einaudi, pp. 160, € 17,50), pubblicato in contemporanea con gli Stati Uniti nell’ottima traduzione di Cristiana Mennella, ultimo titolo di una cinquantennale produzione letteraria che comprende già più di trenta libri. Più volte avvicinato alla sensibilità postmoderna per la sua Trilogia di New York (1987), lo scrittore statunitense ha dichiarato a I. B. Siegumfeldt – in Una vita in parole – di trovare queste attribuzioni «arroganti» e «di cattivo gusto, se non addirittura disoneste». In effetti, nel corso della sua carriera Auster ha esplorato una tale varietà di stili e generi letterari – dal romanzo di formazione alla detective story, dal realismo alla metafiction, con deviazioni distopiche e ucroniche – che il suo «stile tardo» andrebbe probabilmente considerato come l’ennesima tappa dei Viaggi nello scriptorium, titolo di un suo breve e significativo romanzo uscito nel 2006. Oltre a costituire il capitolo centrale della «seconda trilogia» di Auster (insieme a Follie di Brooklyn e Uomo nel buio), questa sorta di pièce beckettiana, dove un anziano scrittore chiuso in una stanza riceve la visita dei personaggi dei suoi romanzi, può essere letta come il «gemello» metafisico del romanzo più recente.

All’inizio di Baumgartner l’omonimo protagonista, un settuagenario professore di filosofia, si interrompe mentre sta scrivendo una monografia sugli pseudonimi di Kierkegaard per scendere al piano di sotto a recuperare un libro da cui intende citare una frase. Da qui, una catena di fatti – tra un piccolo accidente domestico, due telefonate, l’arrivo di un visitatore, un incidente più serio… – che porterà lo studioso a una fondamentale presa di coscienza della propria vita. «Eccolo, l’inizio… che ha scatenato tutti gli altri di questa giornata di continui incidenti». Tuttavia, in questo caso, invece di evolvere da un’iniziale semplicità verso il progressivo ingarbugliamento – come avviene in Città di vetro, dove una telefonata nel cuore della notte innesca uno scambio di persona che trascina lo scrittore Quinn in un vortice di equivoci e misteri – la narrazione fluisce in modo pacato, quasi circospetto, lungo il percorso non sequenziale della psiche del protagonista, assecondando il ritmo dei suoi pensieri in una complessa simultaneità narrativa tra nostalgia e anticipazione.

Se per Said «tardività significa raggiungere la fine in completa coscienza, pieni di ricordi e anche molto (e quasi soprannaturalmente) consapevoli del presente», la storia «tardiva» di Baumgartner procede soprattutto attraverso ellissi e silenzi, secondo i ritmi di un film muto. Per venire a patti con la perdita dell’amata moglie, Anna Blume, l’uomo decide di mettere ordine tra i manoscritti incompiuti di lei, scrittrice e traduttrice, che comprendono poesie, sketch autobiografici, lettere e due romanzi abortiti. Tutto questo materiale frammentario, che Auster inserisce nel romanzo quasi a spezzare il flusso dei ricordi, insieme alle rassicuranti interpolazioni del narratore onnisciente, aiutano a scavare fenditure nella memoria del protagonista. Quel che resta all’anziano filosofo, oltre al conforto dei pochi oggetti per lui ancora significativi – il pentolino comprato il giorno che ha conosciuto Anna, i vestiti di lei che continua a piegare e ripiegare – è ovviamente la scrittura. Quella di Anna, sì, ma anche la propria: lo studio sugli pseudonimi con cui Kierkegaard firmò le prime opere (uno dei quali è notoriamente Johannes de Silentio) assume un significato centrale alla luce delle dichiarazioni dello stesso Auster, secondo cui tutti i personaggi dei suoi romanzi nascono già con un nome, connotante in quanto tale. Per sua stessa ammissione, Anna Blume, già protagonista di Nel paese delle ultime cose (1987), è il personaggio che più gli sta a cuore e che di fatti continua a riproporre nelle sue opere (la troviamo anche in Moon Palace e in Viaggi nello scriptorium, seppure in ruoli differenti). Non è difficile intuire che la nostalgia di Baumgartner per la moglie defunta trovi una controparte nella nostalgia dell’autore verso i suoi personaggi più cari. Tanto più in considerazione del fatto che il cognome da nubile della madre del protagonista è Auster.

La struttura del romanzo, solo in apparenza disordinata, rivela un’architettura meticolosa, con i cinque capitoli che ricalcano i cinque atti del dramma (o è una tragicommedia?) della vita del protagonista, e con tre telefonate a scandire altrettanti momenti di svolta: dopo quella iniziale che dà il via agli eventi, la seconda arriva in sogno al protagonista e proviene dall’apparecchio rosso, nello studio della moglie – «il telefono staccato che non può squillare ma che comunque ha squillato e continua a squillare», controparte del «taccuino rosso» che ricorre in diversi romanzi di Auster. Anna chiama il marito dal «Grande Nulla» informandolo che è proprio lui, con il suo ricordo, «a tenerla in quell’incomprensibile aldilà, quel paradossale stato di coscienza nella non-esistenza, che prima o poi dovrà finire». Spinto dal proprio inconscio a guardare avanti, Baumgartner riversa le sue attenzioni sulla «calma e sofisticata Judith», per poi affezionarsi (via e-mail) a una giovane studentessa, Beatrix Coen, a cui vuole bene come a una figlioccia. La terza e ultima telefonata arriverà proprio da lei e metterà in moto gli eventi che condurranno al finale del romanzo – finale che Auster abilmente sottrae al lettore, quasi a rivendicare l’immortalità di ogni vita fintantoché viene vissuta.

Come le «opere tarde» prese in considerazione da Said, Baumgartner si rivela un libro felicemente inattuale, una «piccola confabulazione» impermeabile ai temi sociali che pure hanno interessato Auster in periodi diversi della sua carriera: come afferma sornione il narratore, nel nuovo libro a cui lavora il protagonista – «un discorso semiserio, quasi romanzesco, sull’io in relazione all’io degli altri» – non c’è «neanche una parola sui milioni di seguaci del movimento Make America Great Again né sulla minaccia in agguato alla Casa Bianca». Proprio per questa sua obsolescenza ricercata, per la capacità di parlare sottovoce direttamente al lettore facendo leva su «una verità emotiva, che alla fine è l’unica cosa che conta», Baumgartner acquista un significato e un valore sovversivo ancora più grandi, risolvendosi in «un monumento di pagine che cantano, in grado di sconfiggere il silenzio sulla tomba».

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