La vendetta del ministro Moro è un clamoroso autogol
Brasile L’ex giudice avrebbe ordinato indagini sul giornalista che lo ha messo con le spalle al muro con le sue rivelazioni
Brasile L’ex giudice avrebbe ordinato indagini sul giornalista che lo ha messo con le spalle al muro con le sue rivelazioni
Messo con le spalle al muro dalle rivelazioni di Intercept sulla vera natura dell’operazione Lava Jato, il ministro Sérgio Moro ha commesso un errore clamoroso. Secondo quanto ha riferito il sito O Antagonista, la polizia federale (Pf), che da lui dipende, ha chiesto al Coaf, il Consiglio di controllo sulle attività finanziarie, di avviare un’indagine sui conti di Glenn Greenwald, cioè sul giornalista che sta indagando su di lui e sulla frode giudiziaria ai danni di Lula.
«INVESTIGA PURE QUANTO VUOI: i difensori della libertà di stampa in tutto il mondo avranno molto da ridire», ha reagito il giornalista in un tweet, parlando di «tattiche tiranniche» e di «abuso di potere» e assicurando che «nessuna intimidazione fermerà i reportage».
Molto da ridire ha avuto in effetti la Freedom of the Press Foundation, descrivendo la rappresaglia del ministro non solo come «un oltraggio alla libertà di stampa», ma come «un grossolano abuso di potere». E su colui che un tempo era celebrato come un eroe della lotta alla corruzione piovono critiche feroci anche da parte della grande stampa internazionale. Proprio come un «eroe caduto» lo descrive per esempio Le Monde, mentre The Huffington Post ne riconduce gli errori a un «eccesso di ambizione e di vanità» e The Independent ne evidenzia le «illusioni messianiche» e la disponiblità «a distruggere lo stato di diritto per raggiungere i propri obiettivi».
NON RISPARMIA L’EX GIUDICE neppure la stampa brasiliana, compresa quella conservatrice. «Ma non hanno approvato un dispositivo contro l’abuso di autorità?», si è per esempio chiesta la giornalista della GloboNews Monica Waldvogel, riferendosi al progetto di legge contro gli abusi di autorità da parte di giudici e pubblici ministeri approvato dal Senato il 26 giugno. «Moro non rispetta la stampa, non rispetta la tutela della riservatezza della fonte e pensa che tutto il mondo sia il suo Deltan Dallagnol», ha evidenziato il giornalista di Intercept Leandro Demori, alludendo all’appoggio incondizionato fornito all’ex giudice dal coordinatore della Lava Jato.
NESSUN COMMENTO dal ministro. Più volte interrogato al riguardo durante la sua audizione alla Camera dei deputati – ben più pesante per lui di quella al Senato del 17 giugno scorso – Moro ha evitato di rispondere, attirandosi così ulteriori critiche. «Il ministro deve rispondere alle domande che gli vengono rivolte. Gli è stato chiesto qui, diverse volte, se la Pf e il Coaf stiano indagando il giornalista e il ministro tace», ha accusato il deputato del Pt Zeca Dirceu.
La strategia difensiva di Moro è stata la stessa seguita al Senato: quella di mettere in dubbio l’autenticità dei messaggi divulgati – visti come frutto di un’azione criminale da parte di hacker – e di negare, al tempo stesso, che essi rivelino una qualsiasi irregolarità. Ma a rinfacciargli il «discorsetto ripetitivo» – forse l’ho detto, se l’ho detto non c’è nulla di grave – è stata la deputata Sâmia Bonfim del Psol, che ha concluso: «Quando non si nega in maniera decisa, forse è perché si è colpevoli». E non è stata l’unica a dargli addosso: il ministro, ha evidenziato la Revista Fórum, «è stato demolito» e «a tratti umiliato» durante l’audizione.
LE ULTIME RIVELAZIONI, del resto, non hanno certo alleggerito la posizione dell’ex giudice e del pool della Lava Jato. Come quelle, diffuse dalla Folha il 30 giugno in collaborazione con Intercept, da cui emerge come Léo Pinheiro, il proprietario dell’impresa di costruzioni Oas la cui testimonianza è risultata determinante per la condanna di Lula, avesse dovuto cambiare la sua versione perlomeno due volte prima di ottenere uno sconto di pena e altri benefici. E di come Deltan Dallagnol, a proposito di tali concessioni, si preoccupasse delle apparenze: «Non può sembrare un premio per la condanna di Lula».
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