Che forma ha la disillusione? Tareq, che fa il musicista, dice che è la depressione a dare a tanti la voglia di fare qualcosa, a prescindere. Invece che annichilire, spinge a produrre: a scrivere una canzone hip-hop sull’identità smarrita palestinese che diventa una hit in Medio Oriente, a trasformare una chiesa abbandonata in un centro sociale e culturale, a «rinnovare» il muro di separazione israeliano con graffiti nuovi e i volti della più nota giornalista palestinese Shireen Abu Akleh, abbattuta a Jenin da mitra dell’esercito israeliano, o con quello del 31enne gerusalemita Eyad al-Hallaq, ucciso nel 2020, e un messaggio condiviso da chi è considerato subalterno per nascita – Palestinian lives matter.

Spinge a prendere i fucili per difendere campi profughi e centri città dalle incursioni sempre più frequenti e brutali dell’esercito israeliano, in una spinta di resistenza armata minoritaria, dettata più dalla frustrazione per l’assenza di una leadership credibile che da una vera e propria agenda politica. O, al contrario, a scaricare l’app del Cogat (l’Amministrazione civile israeliana, che gestisce la vita quotidiana dei palestinesi sotto occupazione militare) per presentare con un click la richiesta di un permesso di lavoro in Israele: «Paghi 2.500 shekel al mese (circa 600 euro, ndr), ma poi in un cantiere israeliano te ne danno 500 al giorno. In Cisgiordania un muratore lo pagano meno della metà», ci dice Iyyad che di anni ne ha 24, vuole sposarsi, costruire una casa e comprare una tv, una lavastoviglie e una macchina a rate. «E va bene così, mi basta, forse è questa la libertà».

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E non chiamateci generazione Oslo, per favore. Questo lo dice ogni palestinese nato dopo il 1993, impossibili da comprimere tutti in una generazione sola. Perché ci sono quelli che hanno vissuto la seconda Intifada a inizio Duemila, hanno tirato sassi ai carri armati israeliani che erano bambini e a trent’anni sono già ex prigionieri politici. Quelli rinchiusi dalla nascita a Gaza con l’inizio dell’assedio nel 2007. Quelli che non hanno mai visto Gerusalemme e il mar Mediterraneo perché il muro e il sistema dei checkpoint dal 2002 hanno reso un’utopia una mezz’ora appena di autobus. Tutti hanno in comune la separazione fisica totale della Palestina storica in compartimenti stagni, una distanza che si fa ignoranza dell’alterità: cosa c’è dall’altra parte?

«In Cisgiordania si vive bene. A Hebron i palestinesi convivono con gli israeliani», dice Mona, residente a Gaza dalla nascita, nel 2004, e convinta che «laggiù ormai vivono insieme, nelle stesse palazzine». L’occupazione si fa plumbea, l’israeliano diventa un vicino di casa e non un colono che ha preso con la forza le case della città vecchia e ha costruito con il sostegno dell’esercito una realtà distopica, dove i palestinesi sono prigionieri della loro stessa comunità.

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Hanno in comune anche altro, i palestinesi post-Oslo: l’Autorità nazionale, l’Anp, entità amministrativa che si sognava Stato ed è diventata da subito una mera appendice di Israele, fornitrice di servizi (scarsi) e dispensatrice di stipendi pubblici utili a non perdere il residuo di consenso che la tiene in piedi. Tanto scarno che deve ricorrere a mezzi «israeliani» per sopravvivere, controllo sociale e arresti di dissidenti, e mezzi «liberali», un mix di autoritarismo e neoliberismo che qua è esplosivo, perché non esiste nemmeno un’economia indipendente.

Eppure questi giovani sono la grande maggioranza del popolo palestinese che tuttora vive su queste terre, in Israele e nei Territori occupati: secondo il Palestinian Bureau of Statistics (dati di novembre 2022), il 38% dei palestinesi ha meno di 15 anni, il 69% ne ha meno di trenta – la generazione Oslo, insomma. L’età media nei Territori occupati è di 19 anni. Studiano (il tasso di alfabetizzazione è pressoché totale: analfabeta è appena il 3% della popolazione) e lavorano poco (la disoccupazione è al 46% a Gaza, al 15,5% in Cisgiordania). Chi può se ne va in Europa o negli Stati uniti, con in tasca un dottorato, un assegno di ricerca, un visto di lavoro. Qualcuno ritorna perché «in America si sta male, vivi solo per lavorare e hai paura ad andare al centro commerciale o a un concerto, perché in tasca hanno tutti una pistola». Fa quasi sorridere, che un palestinese si senta più sicuro sotto occupazione che in Iowa.

Perché è la rete sociale comunitaria che ancora permea le vite, le rende sopportabili e capaci di reagire a ogni difficoltà. «Qui sotto una settimana fa è arrivato un gruppo di coloni di Teqoa – ci dice Yasser, che vive su una collina che dà su uno dei checkpoint israeliani che collegano Gerusalemme alle colonie intorno a Betlemme e Hebron – Sono arrivati mentre dei palestinesi lavoravano nell’uliveto, stanno costruendo una casa. I coloni li hanno cacciati e hanno piantato una bandiera israeliana. Il villaggio si è riunito e li ha cacciati. Ma tornano, li vedi fare colazione nell’uliveto, solo per vedere quanto spingersi oltre».

Una società ancora compatta in termini di solidarietà interna ma che non è un blocco monolitico. L’aspirazione di libertà assume forme diverse, sempre di più apartitiche ma profondamente politiche, che sia il sogno middle class di costruire una casa sulla propria terra o un disco rap. «Qui a Gerusalemme è ancora diverso – chiosa Samar, 23 anni, studentessa – Non lasciamo che nessun politico si intesti di parlare a nome nostro. Resistiamo da soli, a Silwan e a Sheikh Jarrah, senza Anp, Hamas o Abbas (il leader islamista israelo-palestinese, ndr). Siamo noi la Palestina».