Sono decine e decine le automobili palestinesi incanalate, da blocchi di cemento armato, per i controlli israeliani al valico di Qalandiya, in uscita verso Gerusalemme. Tante altre vanno a sinistra, aggirando bancarelle e altri ostacoli, per dirigersi a un altro valico sperando che sia meno congestionato. La confusione è grande, colpi di clacson continui e nervosi, detriti e polvere aggravano la condizione di chi vive nel vicino campo profughi. I taxi scaricano di continuo persone che corrono verso i tornelli e i controlli di sicurezza digitali israeliani. Su questo girone infernale domina un totem: il Muro con cui Israele ha diviso Gerusalemme dalla Cisgiordania.

«Trent’anni fa era diverso», ci racconta Rafat Abdelhadi, infermiere di 52 anni che il valico di Qalandiya lo deve attraversare, con in tasca un permesso israeliano, ogni giorno per recarsi al lavoro a Gerusalemme est. «Si andava da Ramallah a Gerusalemme senza dover passare alcun posto di controllo. Con i miei amici la sera andavamo a Betlemme, un po’ ovunque, senza incontrare barriere». Dopo la firma degli accordi di Oslo nel 1993, aggiunge Abdelhadi indicando il terminal, è cambiato tutto, ma in peggio: «Ci dicevano che avremmo avuto il nostro Stato, che saremmo stati liberi e non più sotto occupazione militare. Volevo crederci, avevo delle speranze. Nello stesso momento (gli israeliani) chiudevano strade, in alcune zone non ci potevamo più andare, i coloni continuavano a rubarci la terra. E qui a Qalandiya hanno costruito questo mostro che ci taglia fuori da Gerusalemme».

La frustrazione dell’infermiere di Ramallah è quella di milioni di palestinesi. Ognuno di loro potrebbe raccontare più o meno le stesse cose riguardo alle implicazioni degli Accordi di Oslo per gli abitanti di Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme est. In questi giorni i media locali e internazionali intervistano i protagonisti ancora in vita di quelle intese negoziate segretamente per mesi a Oslo dal governo laburista israeliano di Yitzhak Rabin e l’Olp del leader palestinese Yasser Arafat. Trattative che, dopo aver generato clamore e grande sorpresa, sfociarono in una stretta di mano tra Rabin e Arafat e nella firma il 13 settembre 1993 alla Casa bianca, davanti al presidente Bill Clinton, di una Dichiarazione di Principi che stabiliva il percorso verso un «accordo di pace definitivo» tra israeliani e palestinesi. Per Arafat Oslo significava lo Stato indipendente, lo ripeteva sempre, ne era certo. Ma Rabin e il suo ministro degli esteri Shimon Peres non lo confermarono mai.

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All’epoca si facevano solo ipotesi di soluzioni. L’Accordo di Oslo, dissero in particolare i leader israeliani, con le sue divisioni territoriali – aree A, B e C – assegnate solo in minima parte alla piena gestione dell’Autorità nazionale palestinese nata nel 1994, le sue restrizioni di sicurezza, i posti di blocco militari triplicati e disseminati ovunque nella Cisgiordania palestinese, sarebbe stato temporaneo: cinque anni fino al 4 giugno 1999, allo scopo di consolidare la fiducia tra i due popoli e cementare le condizioni per avviare le trattative per una «soluzione permanente». A quella ultima fase furono rinviate tutte le questioni centrali, i nodi fondamentali del conflitto: lo status di Gerusalemme e della Spianata delle Moschee, i profughi palestinesi, la gestione dell’acqua e delle risorse naturali, il futuro delle colonie ebraiche, la definizione dei confini tra Israele e «l’entità palestinese».

Sappiamo come è andata quella fase. Israele dopo aver ritirato le sue truppe da gran parte di Gaza e dalle principali città palestinesi in Cisgiordania non ha mai più fatto movimenti sul terreno. Yitzhak Rabin fu assassinato il 4 novembre 1995 da un estremista ebreo deciso a fermare la realizzazione delle intese di Oslo. Il suo successore Peres perse nel 1996 le elezioni a vantaggio del leader della destra Benyamin Netanyahu mentre si registravano attentati con morti israeliani compiuti da militanti di Hamas.

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Il ritorno al potere dei laburisti nel 1999 con Ehud Barak non avrebbe portato alla scarcerazione dei prigionieri politici palestinesi e alla realizzazione di «corridoi sicuri» tra Gaza e Cisgiordania. Quindi nell’estate 2000 il disastroso «negoziato finale» tra Barak e Arafat messo in piedi frettolosamente da Bill Clinton a Camp David. Lo scoppio qualche mese dopo della seconda Intifada palestinese è stato il prodotto del fallimento di Oslo. Un disastro annunciato da più parti convinte che Oslo non «liberava» i palestinesi ma li avrebbe confinati in «bantustan» controllati da Israele. Per molti israeliani la seconda Intifada ha provato che «i palestinesi non riconoscono l’esistenza di Israele». In realtà Arafat e l’Olp l’avevano riconosciuto negli anni ’90 durante una storica seduta del Consiglio nazionale palestinese a Gaza, che ha abolito gli articoli dello Statuto palestinese che negavano Israele. Invece il governo e poi quelli di Peres e Barak hanno solo riconosciuto l’Olp come rappresentante dei palestinesi.

«Nel 1993 ero solo una ragazzina ma ricordo bene mio padre che all’improvviso partiva per la Norvegia. Poi in giorno a casa, quando tutto era già deciso, ci parlò di un accordo pronto con i palestinesi», ci dice May Pundak, figlia dell’accademico Ron Pundak, considerato assieme al suo collega Yair Hirschfeld, ai palestinesi Ahmed Qurea (Abu Alaa) e Bassam Abu Sharif, ai politici israeliani Uri Savir e Yossi Beilin, tra i teorici e realizzatori dell’Accordo di Oslo. «Per mio padre – prosegue – quelle intese aprivano un’era nuova, in cui i palestinesi avrebbero ottenuto i loro diritti e la fine dell’occupazione militare. Israele il riconoscimento da parte di palestinesi e arabi. Ci credeva davvero. Ma non metto la mano sul fuoco sui sentimenti dei leader politici». Oggi May Pundak è attiva nell’iniziativa «Two States-One Homeland» per il rilancio della soluzione dei due Stati (Israele e Palestina) coesistenti defunta assieme all’Accordo di Oslo anche se Usa e soprattutto l’Unione europea si ostinano a negare l’evidenza. Ad assassinare l’idea dei due Stati sono stati la colonizzazione israeliana nei Territori e le politiche dei governi di destra guidati da Netanyahu dal 2009. I partiti che compongono l’attuale maggioranza israeliana invocano la cessazione «ufficiale» di Oslo per spegnere qualsiasi idea di indipendenza palestinese.

Aveva dubbi e perplessità anche Sami Abu Omar, 63 anni di Gaza, quando fu annunciato «lo storico accordo». Dentro il petto però cullava la speranza, come tanti palestinesi, che quei dubbi potessero essere smentiti dai fatti: «Lo slogan era prima Gaza e Gerico ossia il ritiro israeliano subito da qui, la mia terra. Non posso negare che all’inizio fui preso un po’ dall’entusiasmo. Cominciai a immaginare di poter viaggiare ovunque, di andare a Gerusalemme senza problemi, magari a cercare un buon lavoro. Mi illusi che sarebbe terminata la nostra vita di profughi in povertà». Invece, aggiunge, «trent’anni dopo sono chiuso una gabbia da cui è difficilissimo uscire, non solo verso Israele anche per l’Egitto. Non siamo liberi neppure di curarci o di studiare dove c’è possibilità di farlo. Questo non sembra importare a nessuno nel mondo».

Per Fidaa Abu Hamdiyeh, 41 anni, chef di Ramallah con legami con l’Italia, l’Accordo di Oslo vuole dire «batticuore, preoccupazione». Fino qualche tempo fa insegnava all’università di Hebron. «Per andare da Ramallah a nord di Gerusalemme ad Hebron nel sud si percorre una strada non agevole in un’area nota come Wadi Nar che porta a Betlemme perché noi palestinesi non possiamo fare il percorso più breve, ci è vietato attraversare Gerusalemme» ci spiega. «Ogni giorno dovevo passare all’andata e al ritorno il posto di blocco israeliano chiamato container. Mi domandavo…lo troverò aperto, con una lunga coda di auto, arriverò tardi all’università o, peggio, tardi a scuola a riprendere mia figlia piccola? Ore e ore passate in auto per percorrere poche decine di chilometri a causa delle chiusure israeliane. Ansia, questo è l’Oslo che mi accompagna sin da bambina».

Come sarebbe andata senza Oslo è l’interrogativo che si pone il giornalista Nasser Atta, 62 anni. Quando ad agosto 1993 furono annunciate a sorpresa le intese in Norvegia, si trovava a Washington come giovane portavoce della delegazione palestinese alle trattative bilaterali e multilaterali con Israele cominciate alla fine del 1991 alla Conferenza di Madrid. Ricorda ancora la sorpresa e la forte delusione dei negoziatori palestinesi – tra i quali gli stimati Faisal Husseini, Haider Abdel Shafi e Hanan Ashrawi – lasciati all’oscuro dei colloqui in Norvegia. Scoprirono che avevano solo perso tempo in tutto quel periodo. «Non so come sarebbero andati a finire quelle trattative, forse in un niente di fatto. Però Madrid rappresentava in qualche modo la forza e la grande volontà del popolo palestinese di vivere libero, emerse dalla prima Intifada. Quella rivolta popolare contro l’occupazione aveva convinto gli Usa a imporre a Israele il negoziato con palestinesi e arabi, anche su profughi e Gerusalemme». L’Accordo di Oslo invece, afferma Nasser Atta, «sono il risultato della grande debolezza di Arafat e dell’Olp isolati da tutti perché nella Guerra del Golfo del 1991 avevano appoggiato Saddam Hussein. Su quella debolezza giocò Israele per strappare ad Arafat un accordo penalizzante per i palestinesi».

Quando è fallito Oslo, gli chiediamo. «Come palestinese dico subito, nel momento stesso in cui è stato raggiunto per ciò che prevedeva. Un israeliano forse risponderebbe quando è stato assassinato Yitzhak Rabin».